Da Diego e Pelé: i campioni hanno bisogno di una squadra, i geni di un pallone
A Maradona e Pelé dobbiamo la bellezza di uno sport che, come la giovinezza di Lorenzo de’ Medici, “Si fugge tuttavia!".

Il 23 ottobre Edson Arantes do Nascimento detto Pelé ha compiuto 81 anni. Il 30 ottobre Diego Armando Maradona detto tutto (il pibe de oro, il pelusa, il dièz, la mano de Diòs, il barrilete cosmico) ne avrebbe festeggiati 61. Ho avuto la fortuna sfacciata di conoscerli. E di frequentarli. Pelé, poco. Non avevo ancora 8 anni quando sbarcò in Svezia e trasformò in magia un ingorgo di petti e di gambe. L’ho poi “assistito” a Milano, nel ‘90, quando la “Gazzetta dello Sport” organizzò una partita per il suo mezzo secolo. Rughe di gloria.
Pelé l’ho visto in tv, Diego dal vivo. Numeri dieci, più completo il brasiliano, che giocò persino in porta; più selvaggio e più leader, l’argentino. Destro e sinistro contro sinistro: la metafora della dicotomia politica che li avrebbe allontanati, senza però rigarne l’assoluto e, sotto sotto, la stima. Pelé, vetrina della Fifa. Maradona, sasso contro. Sono stati immensi e – in campo, almeno – onnipotenti. Hanno rappresentato il calcio nella sua essenza più libera, ci hanno trasmesso emozioni pazzesche, quando ancora le strade erano palestre dove affinare tecnica e sniffare dribbling, non solo ring da Bronx.
Il confronto Pelé-Maradona
Pelé “e” Maradona: non c’è gusto. Pelé “o” Maradona: ecco, il gioco comincia a farsi duro. I paragoni hanno da sempre stimolato la fantasia degli appassionati, tribù che unisce gli esperti del cavillo ai rancorosi del mal di pancia. Confrontare i Grandi, o chiunque giustifichi un dibattito, permette a noi nani di gonfiare il petto, abbagliati dalle dimensioni della scelta. E allora: Diego. Così come Michel Platini batte allo sprint Zinedine Zidane e Alfredo Di Stefano anticipa Johan Cruijff. “Le opinioni sono come il sedere. Tutti ne abbiamo uno, ma non è detto che interessi agli altri”, scriveva Vittorio Zucconi su “la Repubblica” del 3 agosto 2010. Regolatevi.
Gianni Rivera è del parere opposto: O rey, per distacco. È il bello di una anormalità così alta e distante da rendere plausibile ogni rissa, ogni podio. Diego non è riuscito a vincere i demoni che lo attendevano al varco, troppo “nome” per non suscitare invidie, illusioni, agguati: in famiglia e nella sua sgangherata Camelot. Pelé ci è riuscito, abbastanza. Da Santos, Brasile, affiorò un alieno che sabotò i catechismi vigenti. Da Villa Fiorito, Argentina, ne emerse un altro, non meno lampada di Aladino (e poi di Corrado Ferlaino). Mancano, a Pelé, la Napoli che a Maradona ha dedicato l’anima e lo stadio, le suggestioni di Paolo Sorrentino, gli stupori di Emir Kusturica.
Ci sono non-gol che li hanno cantati meglio di tanti filmati: Pelé, la finta di corpo con cui mandò al manicomio Ladislao Mazurkiewicz, portiere dell’Uruguay, ai Mondiali messicani del 1970; Maradona, lo slalom “amichevole” a Wembley, con gli inglesi, nel maggio del 1980, in largo anticipo sulla mano de Diòs e la transumanza eretica che lo avrebbero incoronato sei anni più tardi. Si bevve un pugno di maestri e accarezzò il palo. Tutti in piedi: compreso il sottoscritto.
Dal 25 novembre scorso, Maradona ci aspetta fra le nuvole che ne decoravano il paesaggio. Pelé ha appena disinnescato l’ultimo allarme. Dobbiamo a entrambi la bellezza di uno sport che, come la giovinezza di Lorenzo de’ Medici, “Si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza”.
I campioni hanno bisogno di una squadra, i geni di un pallone. Tutto il resto, lacrime e auguri.