Lavezzi, l’uomo che segnava cadendo

Un numero impresso nell'immaginario collettivo, un gol stampato nella mente e il cuore in un barile di miele. Tutto questo è Ezequiel Lavezzi. Oggi, "El Pocho" spegne 37 candeline.

Articolo di Lorenzo Maria Napolitano03/05/2022

© “LAVEZZI” – FOTO MOSCA

Esistono alcuni calciatori che, per un motivo o per un altro, diventano iconici nell’ambiente e nel contesto in cui sono cresciuti o esplosi. Sono gli stessi che lanciano la moda di un taglio di capelli, destinato ad essere emulato da tutti (la cresta di Marek Hamsik). Oppure quei geni che fanno di una giocata particolare il proprio marchio di fabbrica (la trivela di Quaresma). Se c’è qualcosa che nel mondo del calcio mi ha sempre affascinato, è la consegna all’eterno d’un particolare numero di maglia. E no, non il ritiro perchè l’ha indossata Del Piero, Maradona, Baresi o Facchetti. Mi riferisco a quei numeri che nell’immaginario collettivo saranno per sempre legati a quel calciatore. Come Cassano e la sua storica maglia 99. Ovunque si veda l’ultimo numero assegnabile nel calcio, si pensa a lui. Per forza.

Per far sì che ciò accada, è necessaria la concomitanza di due elementi: l’essere travolgente, in campo come nella mente e nel cuore delle persone, e fare… cos ‘e pazz. Travolgente, senza dubbio. Ed a Napoli, poi, di “cose pazze” abbiamo avuto il Re: Ezequiel Lavezzi. Si, “cos ‘e pazz” non è un riferimento casuale. È proprio quella canzone. Nella città di Partenope, il numero 7 o addirittura il numero 22 sono legati quanto inscindibili a lui.

Era un genio di quelli che forse ora non piacciono più, o più probabilmente, non esistono più: amante della bellezza e della passione, romantico e irresistibile, un calciatore nato per essere amato, più che per vincere. Cardine di una squadra di cui era, insieme a Cavani e Hamsik, leader tecnico, iniziava l’azione sempre alla stessa maniera, ma non sapeva nemmeno lui come l’avrebbe conclusa. Lavezzi è stato un’ira di Dio. Uno di quelli che entra nell’immaginario dei poeti, dei romantici, dei romanzieri: pluritatuato e, nel primo periodo, con una capigliatura folta e in disuso. Un matto col sorriso stampato in faccia e sempre pronto a scherzare con i compagni.

Lavezzi non aveva i nervi saldi da vero capitano di Hamsik o Cannavaro, ma certamente per carisma nelle partite decisive non era secondo a nessuno. Si abbandonava totalmente all’emotività della gara, e lo si percepiva dalle sue esultanze. Se si fa un recap dei gol segnati dal “Pocho” in campionato si potrà assistere facilmente ad abbracci con tutta la squadra o a balletti anche un po’ sgraziati, tipici dei momenti di leggerezza regalati da vittorie contro squadre più deboli. Nelle partite più importanti però il modo di esultare di Lavezzi cambiava vistosamente, niente coreografie o affetto languido verso i compagni, ma solo grinta e occhi iniettati di sangue.

Tutto il repertorio del calciatore sembra essere finalizzato al dribbling. Inarrestabile palla al piede e impressionante resistenza nei contrasti. La stessa che lo portava, infatti, a non partire mai per eseguire un solo dribbling. Ma il “Pocho” ha saputo regalare momenti di estasi pura grazie a gol mozzafiato. E, in questi, i tanti e ripetuti tocchetti che eseguiva non c’entrano nulla. Su tutti, quel gol al Milan. Come dimenticarlo.

Scatta e brucia Papastathopoulos. Inciampa sul greco che prova a rimediare. Una capriola (una capriola?). Lavezzi è a terra. In aria piccola. Nesta alla sua destra, contenuto però da Cavani, e chi se non lui. Papastathopoulos alle sue spalle. Linea di passaggio verso il centro area bloccata da Oddo, alla sua sinistra. Davanti Abbiati, né scarso né piccolo. Mentre qualcuno lamenterebbe un fallo o proverebbe a tenere palla, cercando un rimbalzo fortunato magari, Lavezzi dimostra di saper fare “cos ‘e pazz. L’impensabile. Mani a terra per alzarsi quanto basta, rapidamente, e con un tocco sotto da urlo supera il portiere del Milan. Il pallone da un bacio alla traversa e nemmeno tocca la rete, probabilmente non l’avrebbe mai toccata se Cavani non l’avesse raccolta.

Il gol fu inutile ai fini del match, ma la giocata vale molto più di tre punti. Ancora oggi, nonostante la sconfitta, il ricordo di quella partita manda il cuore in paradiso. Ed una sconfitta da questo sapore, poteva regalarla soltanto un calciatore come lui.

L’addio è stato paradossale: figlio di troppo amore da parte della gente. Ma lui lo ha sempre ricordato, e oggi, con i suo post, lo ricorda ancora. Da Parigi alla Cina per amore della maglia che ha indossato e che non avrebbe mai potuto affrontare da avversario. Però, anche per soldi: “Vengo da una famiglia povera, non riuscirei a dire a mio padre che ho rifiutato 4,5 milioni di euro”, dirà. E Napoli, terra d’emigranti e di sacrifici, capì subito. Oggi, il legame tra Lavezzi e Napoli, ed il Napoli, resta una delle più belle favole scritte su un campo da calcio.