San Siro sì San Siro no: l’anomalia italiana dello stadio «a due piazze»
Inter e Milan sempre e comunque sotto lo stesso tetto. Si tratta del più plateale e scandaloso ossimoro che la grammatica dello sport possa proporre a docenti e discenti.
Il problema non è buttare giù San Siro: anche se lo sembra e, magari, lo è per davvero. Non chiedetelo a un ragazzo del Novecento: vi risponderà no. Nostalgia canaglia. Il «busillis» non è neppure un San Siro «figlio» che coniughi la bellezza selvaggia dell’antico «genitore» con l’esigenza di commercializzarne gli accessi ed eventualmente i recessi. Fuor di metafora: un compromesso politico tra i bisogni delle società, gli impulsi del tifo e il rispetto dell’ambiente.
Il problema è che si continua a parlare di uno stadio «a due piazze», non importa dove e non importa quando. Inter e Milan sempre e comunque sotto lo stesso tetto. Si tratta del più plateale e scandaloso ossimoro che la grammatica dello sport possa proporre a docenti e discenti. E attenzione: si parla di Milano, la metropoli più europea del Paese, e di due club che, dell’indotto e del continente, hanno fatto la storia. Dieci Champions in due (Milan 7, Inter 3): la batte Madrid, con le 14 del Real. Madrid e stop.
Alzi la mano chi non deve almeno un palpito al Meazza, alle sue gradinate a picco sul verde, alla nebbia che ne decora e ovatta le pugne invernali, all’erba che, d’improvviso, diventò causa di «guerre» feroci tra giardinieri che, cresciuti nel culto di Wimbledon, reclamavano il diritto all’ultima zolla, all’ultimo ciuffo. Maledetto sia, nei secoli, il terzo anello che il Mondiale del 1990 impose al respiro architettonico, al «miedo escenico» che incuteva il panorama, strangolandone il tappeto. Che l’Inter non abbia una casa tutta sua e il Milan idem, è la classica stortura all’italiana. Basta guardarsi intorno: per trovare un’eccezione, ci tocca migrare nel basket della Nba, a Los Angeles, dove lo Staples Center (ora «Crypto.com Arena») ospita sia i Lakers sia i Clippers.
Nel calcio, a ognuno il suo. Il Bernabeu al Real e il Wanda metropolitano all’Atletico. Anfield per il Liverpool e Goodison Park per l’Everton. A Manchester, Old Trafford è rosso United e l’Etihad azzurro City. Da noi, con gli stadi di proprietà che latitano, soltanto Torino vive in regime di separazione dei botteghini: la Juventus allo Stadium, il Toro all’Olimpico-Grande Torino. Chi scrive bussò a San Siro, tredicenne, il 1° marzo 1964. Gli aprirono Milan e Bologna. Il Milan di José Altafini e Gianni Rivera. Il Bologna di Giacomino Bulgarelli e Helmut Haller. Finì 1-2, con reti di Amarildo, Harald Nielsen detto «dondolo» ed Ezio Pascutti, chierica da parroco e gesti da predatore. Non fu banale, la traccia del risultato. In una nuvola di doping e di veleni, portò dritto allo scudetto che il Bologna avrebbe vinto tre mesi dopo, il 7 giugno a Roma, nello spareggio con l’Inter di Helenio Herrera (2-0). Il Bologna di Fulvio Bernardini, cervello tra i più illuminati e illuministi della pedata nazionale.
Lo so che è impossibile e anti-economico (?), ma se dipendesse da me accetterei di demolire San Siro solo a una condizione: che gli «inquilini» potessero disporre e godere di una cuccia tutta loro. Napoli, fra le grandi città, è l’unica ad avere una squadra. Una, non due: e, quindi, può limitarsi a cambiare il nome al cemento, da San Paolo a Diego Armando Maradona. Non ha concorrenza, Aurelio De Laurentiis, e nemmeno tormenti, se non le baruffe legate ai restauri e ai rapporti con i sindaci di turno. Beato lui.
In un passato ormai giurassico, l’Inter giocava all’Arena Civica e il Milan a San Siro. Il futuro incombe. Lo stadio bipartisan è un’anomalia, una provocazione che abbiamo adottato e sopportato nella speranza di poter celebrare, un giorno, quel rito catartico, un po’ divorzio e un po’ battesimo, che corregge la trama senza ferire il romanzo.