Il Napoli si è dimenticato del Sudamerica
Il Napoli ha costruito le sue maggiori fortune grazie a giocatori provenienti dal Sudamerica, ma da qualche anno sembra essersene dimenticato.
© “OSPINA” – FOTO MOSCA
C’era una volta un Napoli sudamericano. Una squadra fatta di meridionali del mondo, coesi, compatti, uniti, in nome di quel sangue del Sud che scorreva nelle loro vene. Ce lo racconta la storia: per anni e anni, buona parte dell’ossatura della rosa azzurra è stata composta da calciatori provenienti dall’America latina. Gli archivi ci dicono che nei quasi cento anni di vita, il Napoli ha tesserato 29 brasiliani, 28 argentini e 14 uruguayani. Gente che sentiva, più di altri, quel senso di appartenenza alla causa partenopea e condividevano quel desiderio di rinascita. Molti hanno fallito, ma tanti altri, invece, hanno scritto pagine indelebili del Calcio Napoli.
Innocenti, Sallustro e il “primo” La Paz
Per ricercare la scintilla della storia d’amore tra Napoli e Sudamerica bisogna risalire agli albori del calcio all’ombra del Vesuvio. Nel 1926, la prima formazione azzurra poteva contare già su due pilastri originari dell’America latina. Paulo Innocenti, nato in Brasile, fu un roccioso terzino sinistro e fu anche il primo capitano e marcatore della storia del Napoli. Attila Sallustro, nato ad Asunción, Paraguay, invece, è stato uno dei bomber più prolifici della storia del club, con 108 gol in 269 presenze. L’attaccante è stato per oltre 50 anni il miglior marcatore della storia del club.
Entrambi provenivano da famiglie italiane emigrate in cerca di fortuna e furono naturalizzati dopo esser tornati in patria, tant’è che giocarono anche alcune partite con la Nazionale azzurra. La postilla doverosa, che vale anche per i decenni successivi, è che la questione della nazionalità era molto più flessibile rispetto a come la intendiamo ora.
Nelle annate successive qualche altro calciatore del Sudamerica face tappa. Erano soprattutto uruguagi, i migliori nel fútbol in quegli anni, e vale la pena ricordare l’approdo in azzurro proprio di uno di questi. Luis Roberto La Paz, da Canelones, arrivò a Napoli nel 1947. Era un attaccante e, a quanto riportano alcune statistiche, nelle 3 stagioni partenopee mise a segno solo 6 gol in 33 partite. Dribblomane, più che finalizzatore, leggenda vuole che tra i tifosi fu coniato il detto “se sta scartann’ tutto ‘o Vommero”, dato che allora si giocava allo Stadio Collana, situato appunto al Vomero. Il suo ricordo è legato soprattutto ad un aspetto socio-storico rivoluzionario, più che realizzativo: si dà il caso, infatti, che La Paz è stato il primo calciatore di colore della storia del nostro campionato.
Gli anni ’50: Pesaola, ‘O lione Vinício e Del Vecchio
Gli anni ’50, invece, portarono a Napoli l’argentino Bruno Pesaola, che vestito d’azzurro collezionò ben 250 presenze spalmate in 8 stagioni, dal 1952 al 1960. A fargli compagnia in quel periodo ci fu Luís Vinício, nato a Belo Horizonte, in Brasile. Il centravanti rubò l’occhio ai dirigenti del Napoli durante una tournée estiva del suo Botafogo, che si convinsero a portarlo in Italia. ‘O lione, come fu soprannominato dai tifosi, conquistò un posto nel cuore dei partenopei mettendo a segno 70 gol in 154 partite, quasi uno ogni due partite. Dal Sudamerica proveniva anche Emanuele Del Vecchio, che al Santos era stato scalzato da un giovanotto molto talentuoso, un certo Pelé. Come il collega Vinício, anche lui viaggiò ad ottime medie realizzative, siglando 29 reti in 71 partite.
Gli anni ’60: Cané, Sívori e Core ‘ngrato
Nel decennio successivo, a Napoli sbarcarono Juan Carlos Tacchi, un frizzante esterno argentino, e soprattutto Jerbas Faustinho, meglio conosciuto come Cané. Direttamente da Rio de Janeiro, il brasiliano ha vestito per 250 volte la maglia azzurra, macinando chilometri sulla fascia destra e realizzando 70 gol nella sua doppia avventura partenopea. 10 stagioni in maglia azzurra tra il 1962 al 1975, interrotte solo da un triennio a Bari dal ’69 al ’72. Ancora oggi, ad 82 anni, lo si incrocia mentre corre instancabile per le strade di Posillipo, dove è rimasto a vivere al termine della sua carriera. In quegli stessi anni, inoltre, l’attacco del Napoli poteva vantare la presenza di due calciatori come Omar Sívori, arrivato dopo aver fatto la storia alla Juventus, e José Altafini, che dopo oltre 200 partite da napoletano decise di passare alla Juventus, beccandosi il soprannome di Core ‘ngrato.
Gli anni ’80 e ’90: dal Napoli di Maradona al declino
Alla volta degli anni ’80, poi, archiviato il divieto in vigore dal 1966 che vietava di acquistare calciatori stranieri che non fossero già presenti in Italia, ci fu un vero e proprio exploit dell’importazione di talenti del fútbol dal Sudamerica. Il fantasista brasiliano Dirceu, che passò a Napoli nella stagione ‘83/84, fu solo un assaggio di ciò che poi, la stagione successiva, sarebbe stato il più grande capolavoro a cui il calcio abbia assistito. E, chiaramente, non ci riferiamo all’acquisto dell’argentino Daniel Bertoni. Nel 1984 iniziò anche il matrimonio senza fine tra Napoli, il Napoli e Diego Armando Maradona, l’argentino per eccellenza. Ogni dettaglio sarebbe superfluo, sono più le cose che si sanno che quelle che non si sanno del Diez.
A far compagnia a Diego nella rosa che andò a contendersi il secondo scudetto arrivarono due magnifici brasiliani: Careca e Alemão. Il primo è considerato dai più come uno dei migliori attaccanti della sua epoca ma anche dell’intera storia della Seleção, che di giocatori forti ne ha avuti. A Napoli mise a segno 96 gol in 221 partite e divenne in breve tempo idolo della tifoseria partenopea, andando a formare insieme a Maradona e Giordano la famosa “MaGiCa”. Il secondo fu un’autentica diga posta nel mezzo del centrocampo azzurro, arcigno, solido, infaticabile. Era il cuore pulsante della formazione partenopea. Su questi tre pilastri il Napoli ha fondato le fortune di quelle fantastiche annate.
Finiti gli anni d’oro, poi, iniziò un lento quanto inesorabile declino per i partenopei, che persero posizioni in classifica fino a ritrovarsi a lottare per la salvezza e, una volta retrocessi, per la promozione. In queste circostanze ebbe inizio una girandola di cambi, tra acquisti e cessioni, che perdurò fino al fallimento della società e che portò in terra campana tantissime meteore latine. È il caso di Daniel Fonseca, André Cruz, Freddy Rincón, Ayala, Matuzalém, Amauri o Montezine, giusto per citarne solamente alcuni.
La rinascita nel segno del Sudamerica
Dopo il baratro del fallimento e l’investimento di Aurelio De Laurentiis, il rinascente Napoli, che intanto si trovava a fare i conti con la realtà della Serie C, pose nuovamente delle fondamenta sudamericane. Artefici dell’impresa che riportò la squadra in Serie A furono i vari Pampa Sosa, Bogliacino, Piá, Amodio e Maldonado. E una volta raggiunta la massima categoria, tra scommesse e certezze, la scelta ricadeva spesso e volentieri su calciatori dal “sangre caliente”. La campagna acquisti del 2007 portò a Napoli ben quattro calciatori del Sudamerica: el Pocho Lavezzi dal San Lorenzo, el Mota Gargano dal Nacional Montevideo, el Panteron Zalayeta e il portiere Nicolás Navarro.
La trama vincente continua ad intrecciarsi anche negli anni successivi, dopo essersi stabilizzati nel massimo campionato italiano. Nel tempo, giusto per citarne una piccola parte, si aggiungono alla rosa i vari Dátolo, Denis, Cribari, José Ernesto Sosa, Britos, e Federico Fernández. L’apoteosi poi fu l’arrivo del Matador Edinson Cavani, uno dei migliori bomber che il Calcio Napoli abbia mai avuto, capace di far innamorare una piazza intera e riaccendere quel fuoco che non si vedeva da tempo al San Paolo. Erano gli anni del Napoli di Mazzarri, e in quella rosa si contavano anche dieci ragazzi provenienti dal Sudamerica.
Di questi, cinque venivano stabilmente impiegati nella formazione titolare: oltre al già citato Cavani e all’immancabile Lavezzi, c’erano anche Campagnaro, Gargano e Zúñiga. Punti fermi di una squadra che arrivò fino alla storica conquista della qualificazione in Champions, regalando alla piazza partenopea emozioni indelebili. Se quel Napoli non moriva mai, il merito era anche e soprattutto di quei guerrieri dal sangue bollente che non avevano la minima voglia di lasciare il campo con la testa china.
Esce Cavani, entra Higuain
Il filone sudamericano proseguì anche sotto la gestione biennale di Rafa Benítez che, per sostituire Cavani, portò al San Paolo il Pipita Gonzalo Higuaín. “Lo scarto del Real Madrid”, come fu definito da molti, ha scritto capitoli storici non solo della storia partenopea ma di tutto il calcio italiano, portando il record di marcature in una singola stagione a quota 36. Peccato per il tristemente noto tradimento, che ha macchiato una storia d’amore che avrebbe meritato un finale migliore, ma ciò che ha fatto sul campo non ha eguali. Se la gioca con il Matador come miglior centravanti della storia del Napoli.
E quanti bidoni…
Ovviamente, non sono mancati i cosiddetti bidoni, che oggi ricordiamo con un gran sorriso ma che all’epoca erano veramente una piaga. Ignacio Fideleff, ad esempio, lo ricordiamo solamente per la disastrosa apparizione a Verona contro il Chievo; Edu Vargas arrivò in azzurro come secondo miglior calciatore del Sudamerica alle spalle del solo Neymar, e invece si rivelò totalmente inadeguato per il calcio europeo; di Bruno Uvini si parlava come se si stesse acquistando uno dei difensori brasiliani più forti della storia; e come dimenticarsi – o ricordarsi, scegliete voi – di Cristian Chávez, che con la maglia azzurra riuscì a calcare il campo per appena 19 minuti; e poi c’è stato Pablo Estifer Armero, di cui si ha memoria quasi esclusivamente per i suoi estrosi balletti con i compagni.
Piazza pulita
Per i primi 12 anni dell’era De Laurentiis, dal 2004 al 2016, la rosa del Napoli ha potuto sempre far affidamento su almeno cinque calciatori provenienti dall’America del Sud. Poi, lentamente, quel fuoco meridionale ha iniziato ad affievolirsi. Il perché resta tutt’ora un mistero.
Nel triennio di Maurizio Sarri parte il repulisti. Al primo anno vengono venduti in un solo colpo Andújar, Britos, Uvini, Gargano e Duván Zapata. Non che fossero insostituibili, anzi. Però, magari, laddove in alcune situazioni non è bastata la qualità, un po’ di sana grinta latina non avrebbe guastato. Il numero di sudamericani in rosa si riduce dapprima a 6, di cui due erano portieri di riserva (Rafael e Gabriel), uno fuori rosa (Zúñiga) e uno mai preso in considerazione (Henrique). Di fatto, era come se ce ne fossero solamente due: Allan e Higuaín. Poi, nelle due stagioni successive calano addirittura a 3, con i soli Rafael, Allan e Leandrinho – a proposito di bidoni.
E sotto la guida prima di Carletto Ancelotti, poi di Gennaro Gattuso, la situazione non cambia. Nel triennio più deludente degli ultimi anni, a livello emotivo quanto prestazionale, anche gli ultimi reduci hanno abbandonato la barca azzurra.
Dal 2016 ad oggi il Napoli ha acquistato solamente due sudamericani: David Ospina, nell’estate 2018 dall’Arsenal, e Juan Jesus, appena qualche mese fa da svincolato. E sono anche gli unici due sudamericani presenti nella rosa attuale.
“Questa squadra è poco cattiva”
Insomma, dopo tanti anni di fortune, è venuta a mancare quella famosa “garra charrúa” in mezzo al campo e, spesso, lo si è percepito. Quante volte negli ultimi anni ci siamo detti “A questa squadra manca grinta”, o “Questa squadra è poco cattiva”, o ancora “Sono troppo molli”? Forse il motivo è nelle righe precedenti.
A sostituzione della colonna vertebrale sudamericana, ora si predilige l’atletismo africano, sintomo anche di un calcio che si evolve. La tecnica, la qualità e l’estro stanno lasciando il passo alla quantità, ai muscoli e alla prestanza fisica. In principio ci fu, sotto la guida di Mazzarri, Hassan Yebda. Poi sono arrivati Koulibaly, Ghoulam e Osimhen, fino al neoacquisto Anguissa. Le esigenze e i rapporti di mercato sono cambiati. Incidono molto anche le limitazioni sul tesseramento degli extracomunitari poste dalla riforma del mercato del 2014.
Non dispiacerebbe, però, rivedere qualche sudamericano illuminare lo stadio intitolato all’argentino per eccellenza. In fin dei conti, sono stati proprio loro ad accendere più di ogni altro il nostro amore, la nostra passione, per quelle rose multiformi e per quei colori azzurri. Se si pensa a qualche calciatore che ha scritto la storia del Napoli, è difficile non immaginarlo proveniente dal Sudamerica.
Dunque, perchè non continuare a coltivare questa gloriosa tradizione?