La solitudine del numero uno: il caso Reina

Il portiere: un ruolo solitario, spesso crudele. Il ruolo d'estremo difensore spiegato in difesa di Pepe Reina, vittima dei media.

reinafoto mosca
Articolo di Lorenzo Maria Napolitano03/12/2021

© REINA – FOTO MOSCA

Vabbè, giochiamo a portieri volanti? Quante volte è stata pronunciata questa frase, triste e rassegnata. Nessuno che vuole prendersi una delle più grandi responsabilità nel gioco del calcio. Nessuno che ama non far segnare anziché segnare.

Viene chiamato portiere, numero uno, estremo difensore, ma potrebbe benissimo essere chiamato penitente o martire, in attesa della sua fucilazione. Si dice addirittura che dove passa lui non cresca più erba. Il portiere vive all’interno di una prigione dalle sbarre bianche, adagiate e friabili; ha due mani di vantaggio sul resto della squadra, ciò che gli consente di vestire di un altro colore. Prima vestiva di nero come l’arbitro, ora il direttore di gara non è più mascherato da corvo e il portiere consola la sua -eterna- solitudine con la fantasia dei colori. Ognuno inizia da bambino a capire che il ruolo del numero uno non fa per lui. Evitare un gol, evitare l’apice dell’allegria calcistica, il momento figlio del gioco. Il goleador crea l’allegria, il portiere, guastafeste, la disfa. Eppure, non è solo questo a distinguere il portiere da ogni altro ruolo. Non è solo la solitudine, la maglia diversa, i guanti, l’istinto. C’è ben altro.

Il portiere ha sempre la colpa. I giocatori di movimento possono sbagliare più azioni di fila, ma possono riscattarsi in qualsiasi momento. Il 9 può sbagliare anche tre volte davanti la porta, l’appuntamento con il gol è solo rimandato. Il portiere no. Se il portiere sbaglia, il tabellino muta. Inesorabilmente. Un suo gesto non perfetto, una deviazione, una traiettoria incerta, anche una papera, d’altronde chi ha detto che il portiere non può sbagliare, condanna il numero uno alla disgrazia eterna. La storia non manca d’esempi di questo genere. Barbosa, portiere della rappresentativa brasiliana nel 1950, diventa capro espiatorio del “Maracanazo“. Per le strade viene additato come “colui che ci ha fatto perdere il mondiale”. Addirittura, non gli sarà più permesso di entrare nel centro d’allenamento della nazionale brasiliana. Quando un giocatore qualsiasi commette un fallo da rigore, il castigato è lui: lo lasciano lì, abbandonato davanti al suo carnefice. E quando la squadra ha una giornata negativa, è lui che paga il conto sotto una grandinata di palloni, espiando, spesso, peccati altrui.

Ciò non è poi tanto distante dalla situazione in casa Lazio. La squadra di Maurizio Sarri ha subito ben 29 gol, numeri equiparabili al Cagliari o al Genoa, rispettivamente penultima e terzultima in Serie A. Nemmeno tanto distante dalla Salernitana, ultima, con solo due gol in più subiti. Tutto ciò è bastato a far piovere critiche nei confronti di Pepe Reina. Chi se non il portiere? D’altronde i gol li subisce lui. Come se non fosse colpa di una squadra disorganizzata, di un centrocampo che non pressa, di una difesa che consente tiri così facilmente.

Presupposti più che legittimi, secondo alcuni, per pubblicare prime pagine in cui si può leggere “Reina è il peggior portiere del campionato“. Probabilmente il ruolo di difensore dei pali, o da capro espiatorio, passerà nelle mani di Thomas Strakosha. Se ci sarà una svolta, potremmo dire che effettivamente l’estremo albanese dispone di maggiori capacità. Se ciò non dovesse accadere, andrebbero rivolte solamente scuse nei confronti dell’ex portiere del Napoli, vittima, come al solito, d’un solo male: essere il portiere, colui abbandonato al proprio destino sotto gli occhi dello stadio.