Riflessioni sul caso Di Bello: non c’entra il Var, c’entriamo noi
ll problema non è il Var. Il non esserci andati o il non esserne stati allertati. Magari fosse quello, solo quello. Il problema siamo noi. Noi uomini. Nel caso specifico, noi arbitri.
Il problema non è il Var. Il non esserci andati o il non esserne stati allertati. Magari fosse quello, solo quello. Il problema siamo noi. Noi uomini. Nel caso specifico, noi arbitri. Marco Di Bello da Brindisi. E la partita, naturalmente, Juventus-Bologna 1-1 del 27 agosto. Il rigore (di Samuel Iling-Junior su Dan Ndoye al 71’, sullo 0-1) era solare; come solare sembrava il rosso all’apprendista-terzino. Por qué, allora, nulla? Non credo alla mala fede. Credo alla «falta» di coraggio. In precedenza, fra primo e secondo tempo, c’erano stati tre episodi nell’area del Bologna, tutti dubbi, tutti al limite. Una spinta di Nikola Moro a Federico Chiesa; un mani-comio di Jhon Lucumì su tiro-cross di Timothy Weah; un gol di Dusan Vlahovic annullato per fuorigioco attivo di Adrien Rabiot (sulla traiettoria, anche se di poco).
Nulla di clamorosamente piccante; se sparpagliati, un eventuale penalty pro Chiesa e un altro per la «parata» di Lucumi (vedasi il rigore concesso in Napoli-Milan 1-1 di Champions – ritorno dei quarti, 18 aprile – per una sbracciata molto simile di Fikayo Tomori su cross di Giovanni Di Lorenzo; «sceriffo», il polacco Szymon Marciniak) non avrebbero scatenato ghigliottine o roghi. Così come la potenziale convalida della rete del serbo, stante la soggettività geografica del sicario francese: se non vi fidate del sottoscritto, correte su YouTube e guardate il filmato di Lazio-Roma 3-0 del 15 gennaio 2021. Nel dettaglio, il primo dei due gol di Luis Alberto. Non il tiro, però: la posizione di Felipe Caicedo, bivaccante a ridosso del portiere. Sfido chiunque a giudicarla passiva. Viceversa, così fu.
Ricapitolando: nel calcio del Novecento, i tre verdetti sarebbero stati masticati al prezzo di qualche ruttino moviolesco. Nel calcio del Duemila, invece, nessuno avrebbe gridato allo scandalo se il direttore di gara li avesse rovesciati. Tra parentesi, era stato proprio Di Bello, richiamato al video, a cancellare la rete di Vlahovic dopo aver scoperto il domicilio di Rabiot. Il destino, che evidentemente non aveva molto da fare, ha scaraventato addosso alla terna e ai varisti quel popò di contatto nel tinello di Madama. Di una chiarezza sin troppo plateale. Di Bello, niente. In quei pochi e feroci secondi deve aver ripensato alla somma delle indulgenze distribuite, se non a telefonate clandestine nell’intervallo, sufficienti per instillargli piccoli dubbi, per infliggergli pelosi tarli.
Da lì il non fischio. Da lì il non allarme di Francesco Fourneau, allo schermo. Li si sospenda pure. Per carità. Ma la tecnologia non c’entra un tubo. C’entra la fallacità umana che, abbinata a un fiscale senso di colpa, può produrre disastri del genere. C’entra la sudditanza psicologica, specialmente se e quando indotta dall’idea di aver esagerato pur di navigare sopra le parti. Mai dimenticarsi che il termine («sudditanza psicologica») nacque nell’aprile del 1967 dopo un Venezia-Inter 2-3. Era l’epoca della grande Inter, e in laguna la direzione di Antonio Sbardella agitò tumulti.
Il designatore, Gianluca Rocchi, ha parlato di «Var frettoloso, superficiale» e di decisioni (su Chiesa, su Lucumi, su Rabiot) «corrette». Salvo declassare a giallo il rosso di Iling-Junior: wao. Mi ha commosso Marco Di Vaio, direttore sportivo del Bologna. A fine partita, ha bussato al camerino dell’arbitro per chiedere lumi. Proprio lui, con-titolare per due stagioni, dal 2002 al 2004, nella Juventus della Triade. Resta la tribù dei giornalisti. Non sono pochi coloro che, da pensionati, sputano odio contro squadre che, in redazione, decoravano al massimo di qualche battuta. E mai, per iscritto, le bollavano di accuse da trivio. Di Bello è uno di noi, ma noi siamo peggio.