L’urlo nello sport: da Deborah a Zverev, la colonna sonora della nostra vita
La storia insegna che l'urlo non è solo il capolavoro di Edvard Munch. È lavoro. Ed è proprio sul lavoro, quando cadiamo, che la vita ci prende le impronte.

L’urlo nello sport. Di panico. Di strazio. La pistola che l’episodio punta alla tempia della carriera. Bum. Una colonna sonora che non ha preferenze, non ha passaporto. E’ sadica, ma ha buon gusto. L’urlo di Alexander Zverev, venerdì scorso a Parigi, è l’ultimo della serie. Stava combattendo con Rafa Nadal nella semifinale del Roland Garros. Lo marcava stretto, aveva perso in volata il primo set (6-7) ed era appena approdato al tie-break del secondo. Dopo tre ore di wrestling tennistico: botte, e scambi, da orbi. D’improvviso, l’allungo, il corpaccione di quasi due metri che si tende, la caviglia destra che si attorciglia. La fine del sogno, la botola dell’inferno che si apre, bastarda. Dalle «rivoltelle» (del servizio, del rovescio) alle stampelle.
Zverev. Sì. Ma anche Deborah Compagnoni, ai Giochi di Albertville. Aveva vinto l’oro nel Super-G. Capitò il giorno dopo, il 19 febbraio 1992, durante il gigante. Narrano le cronache dell’epoca: «[Deborah] scivola sull’interno destro e cercando di rimettersi in linea, spostando tutto il peso sulla gamba sinistra, sente un crack come quando si fece male la prima volta ma all’altro ginocchio». Bastò un attimo, un grido, per buttarci giù dai soffici cuscini della tv e spingerci dentro una realtà che era debolezza della carne, non banale «miedo escenico».
E poi Gianmarco Tamberi. La sfiga lo aspettava al tavolo della roulette. Colpì il 15 luglio del 2016, al meeting di Montecarlo. Dal 2,39 del record italiano al salto nello sfascio. Gimbo uscì dallo stadio in barella, tra le lacrime, la caviglia sinistra fuori uso, l’Olimpiade di Rio a meretrici. Giurò vendetta al fato, sgobbò come un servo della gleba, conservò il gesso, sbandierato gloriosamente il 1° agosto 2021 a Tokyo, in occasione dell’oro ex-aequo con il qatariota Mutaz Essa Barshim.
E Ronaldo. Dodici aprile 2000, notte di Coppa Italia. In campo, all’Olimpico, Lazio-Inter. Stava recuperando, il fenomeno, dalla lesione al tendine rotuleo del ginocchio destro. Per questo, Marcello Lippi l’aveva portato in panchina. Entra nella ripresa e, viste le circostanze, la cronaca lo circonda di rispetto: dagli avversari al loggione. Avanza verso la lunetta dell’area, ondeggiando a destra e poi a sinistra, come faceva di solito per confondere gli stopper e titillare i palati, atteso al varco dalla chioma forestale di Fernando Couto. E’ un istante. Crolla. Strilla. Le mani sullo stesso, maledetto, ginocchio. Di nuovo i ferri del chirurgo, di nuovo l’ansia del villaggio globale, 523 giorni di stop. Sarà pure il destino, e lo è, ma a volte è proprio carogna.
La Compagnoni tornò e (ri)vinse. Tamberi tornò e vinse. Ronaldo tornò e nel 2002 a Yokohama, con il Brasile di Ronaldinho, Rivaldo e Roberto Carlos, si prese addirittura il mondo. Aveva 25 anni, si laureò re dei bomber con 8 reti, firmò la doppietta che, in finale, avrebbe steso la Germania (2-0). In «Un occidente prigioniero», libro di discorsi e riflessioni, Milan Kundera scrive: «Una vita al centro della storia – lo sappiamo bene – non è una scampagnata». Anche lo sport ai massimi livelli non è una scampagnata. Blandisce, premia, morde, spacca. Va dove lo porta il bisturi.
Fino, risalendo la corrente dell’archivio, al tuono «mundial» di Marco Tardelli. L’11 luglio saranno 40 anni. Il torello tra Beppe Bergomi e Gaetano Scirea nell’area tedesca, il passaggio di Gai, la schioppettata mancina di Schizzo, la palla in buca d’angolo. La corsa, i pugni, il volto sfigurato.
Dal Bernabeu al Philippe Chatrier, la storia insegna che l’urlo non è solo il capolavoro di Edvard Munch. E’ lavoro. Ed è proprio sul lavoro, quando cadiamo, che la vita ci prende le impronte.