In memoria di Maurizio Zamparini, visionario e casinista
La scomparsa di Maurizio Zamparini, friulano di Bagnaria Arsa, merita una riflessione, non solo una citazione.
Adesso che il calcio è cambiato e l’America ha scoperto noi, dopo che noi, in senso molto lato, avevamo scoperto lei, la scomparsa di Maurizio Zamparini, friulano di Bagnaria Arsa, merita una riflessione, non solo una citazione. I ragazzi d’oggi si destreggiano tra l’Inter cinese di Suning, il Milan del fondo Usa, la Roma texana di Dan Friedkin, la Fiorentina italo-yankee di Rocco Commisso. Eccetera eccetera. La tradizione è garantita dalla famiglia Agnelli, proprietaria della Juventus dal 24 luglio 1923, salvo i 12 anni che vanno dal 1935 (quando morì Edoardo, architetto del primo Quinquennio) al 1947 (quando venne incoronato Giovanni, l’avvocato). Silvio Berlusconi e i Moratti appartengono alla stirpe dei mecenati: così tifosi da essere felici di pagare pur di sentirsi appagati. E di appagare il popolo.
“Zampa” ci ha lasciato il 1° febbraio. Aveva 80 anni. Aveva, soprattutto, perso un figlio giovane, Armando, dolore impossibile. Lui, mister Maurizio, ha sfondato con i supermercati, ha riscritto la storia di Venezia e Palermo, è stato presidente e proprietario nell’epoca in cui, spesso, le due cariche coincidevano. Visionario e casinista, mi piace ricordarlo, e “venderlo”, come un uomo fuori dal coro. Sapeva di affari, di calcio, di umanità varia. Non un santo – questo no, questo mai – ma uno che si divertiva nel fare quello che faceva. Non lo sentiva un peso. Non lo faceva pesare.
Aveva un pregio grande: al di là del naso, strumento cruciale nella giungla della vita, sapeva scegliere la gente alla quale affidare le scelte. Gente, cioè, capace di dragare i campacci più scalcinati, “los potreros” argentini, per esempio, là dove non sempre hai il sedere di raccogliere un Diego, ma se non ti abbatti e insisti puoi tornare a casa con un Paulo (Dybala).
Portò il Venezia in Serie A, il Palermo in Europa. Dagli epicedi in suo onore emerge il castello che costruì pezzo su pezzo, con Beppe Marotta, Rino Foschi, Walter Sabatini and friends, un menu da chef stellato, Salvatore Sirigu, Javier Pastore, Edinson Cavani, Amauri, Franco Vazquez, Josip Ilicic, e poi Luca Toni che vivacchiava a Brescia, Andrea Barzagli, Fabio Grosso, Simone Barone, Cristian Zaccardo, tutti campioni del Mondo nel 2006 a Berlino. Non si può non scrivere di Fabrizio Miccoli, che l’estro selvatico non salvò dal carcere. Non dimentico nemmeno Simon Kjaer, che proprio in Sicilia si fece le ossa.
Non parlava mai, o quasi mai, in calcese. Zamparini puntava dritto al nocciolo del problema, in Lega era anti Palazzo, si serviva di tutti e di nessuno, saliva su certe trattative e con certi colleghi come si sale su un taxi, salvo scendere non appena raggiunto l’obiettivo. Alla Enrico Mattei dei tempi dell’Eni e delle “Sette sorelle”.
Ho tenuto per ultimo il suo vizio, il suo hobby. Gli allenatori. Li assumeva, li condiva, li divorava. Corre, la memoria, a “Il silenzio degli innocenti”, film strepitoso del 1991. All’appetito di Hannibal Lecter-Anthony Hopkins, un serial killer ossessionato dall’antropofagia. Si parla di 66 tecnici e 51 esoneri in 32 anni, addirittura: fra dimissionati o dimissionari, confine ambiguo, sottile, indecente. Da Ferruccio Mazzola, il primo a Venezia, a Roberto Stellone, l’ultimo a Palermo, con il record mondiale di otto staffette, per un totale di ben sette mister, nella stagione 2015-2016. Secondo Francesco Guidolin, “dal martedì alla domenica era il miglior presidente”.
Un nordista che fece fortuna al Sud e la fortuna del Sud. Pane al pane, sempre. Urlando. Armando.