L’Inter ad Anfield, gli stadi: cemento armato, cemento amato
Gli stadi. Cemento armato, cemento amato. Sono i cortili della nostra infanzia, i talami dei primi orgasmi e delle prime collere.

Gli stadi. Cemento armato, cemento amato. Sono i cortili della nostra infanzia, i talami dei primi orgasmi e delle prime collere. L’aggancio lo offre la trasferta dell’Inter. Martedì, alle 21, affronterà il Liverpool nel ritorno degli ottavi di Champions. Risultato dell’andata, a San Siro, 2-0 per i Reds. Serve un’impresa. Anfield, a noi. Uno dei più suggestivi al mondo. Chi scrive, lo scoprì sul divano, ragazzo a Bologna, e poi dal vivo, giornalista di «Tuttosport».
Anni Sessanta: il televisore in salotto – o al bar, su un trespolo, perché tutti potessero goderne fra un quartino e una briscola – le semifinali di Coppa dei Campioni, Liverpool e Inter ancora e sempre. Il boato. Quella massa scura, ondeggiante e ruggente, il popolo al potere (per una sera, almeno) e il pallone, bianco, a sorteggiare sogni o incubi.
Anni Settanta: inviato sulla sponda del fiume, il Mersey, non ad aspettare cadaveri ma a fischiettare i Beatles. E poi la Kop. La loro curva. Una specie di chiesa sconsacrata ma non per questo negata al culto, agli dei. Solo che erano il culto e gli dei dei «rossi». Il nome deriva da Spion Kop, letteralmente «vetta delle spie», collina sudafricana nella regione del Natal, teatro di una sanguinosa battaglia della guerra anglo-boera, fra il 23 e il 24 gennaio del 1900. Le truppe britanniche riportarono ingenti perdite, molte delle quali in forza a guarnigioni di Liverpool.
Narrano, gli archeologi della memoria, che il luogo e l’episodio resistettero ai lutti e vennero adottati dal gergo calcistico. Da qui, la Kop di Anfield, anche perché gli «inquilini» erano più caldi che «cool».
Ci sono stato, è stata un’esperienza indimenticabile. Si respira vita, non soltanto sport. La vita di strada, dove il gruppo rimpiazza la famiglia e la squadra, la religione. Dove i gradoni profumano di ascelle e puzzano di galateo. Dove «You’ll never walk alone», Non camminerete mai soli, diventò l’inno del club. E del mio matrimonio con Liliana.
Il Santiago Bernabeu di Madrid è votato alla liturgia del Real, imponente e arrogante, simbolo di una storia che ha fatto la storia. Seduto in tribuna, ti sembrava di stare in cima a un poggio che, per gli avversari, sarebbe stato il Golgota. Highbury, la culla dell’Arsenal, ring di una feroce «pugna» fra Inghilterra e Italia il 14 novembre del 1934. I maestri nel tabellino: 3-2. Gli azzurri nel mito: «I leoni di Highbury». Erano impianti senza pista, senza niente che separasse i cuori dai piedi, tutti lì, appesi a un’emozione, a un’erezione. Highbury non c’è più, sostituito dal moderno Emirates Stadium. Come non c’è più il vecchio Wembley dei gol di Fabio Capello (non c’ero) e di Gianfranco Zola (c’ero), turrito e avito dai tornelli ai cessi.
Stamford Bridge, la casa del Chelsea. Se non avevi fortuna, e ti capitava un posto in fondo alla fila, per fare pipì dovevi far alzare mezzo stadio: persino gli inviati del «Times» e del «Guardian». Il Camp Nou di Barcellona costringeva ad arrampicarsi oltre la luna, era lontano ma bello. L’orologio di Old Trafford ricorda, nei secoli, l’ora della tragedia aerea di Monaco di Baviera, quel maledetto 6 febbraio 1958.
Alla «Romareda» di Saragozza andai per una partita del Real, in vista della doppia sfida con il Napoli di Diego Maradona in Coppa dei Campioni. Era una notte d’estate del 1987. Mi avevano piazzato il telefono in sala stampa, non sul «pupitre». Licenziai il pezzo a una decina di minuti dalla fine, sul 7-0 per i blancos. Così, al gol del Saragozza – in coda alla coda, del tutto platonico – mi toccò scendere di corsa le scale per comunicarlo alla redazione della «Gazzetta». I tabellini sono sacri. Brandendo la cornetta, smoccolai come neppure il più assatanato ultrà del Madrid.