Ripartire dai giovani, ma i giovani in Italia non giocano
I fatti continuano ad essere inversamente proporzionali alle parole: in tutta Europa, la Serie A è il campionato in cui giocano meno calciatori prodotti dai settori giovanili.

©️ “AMBROSINO” – FOTO MOSCA
Nei giorni scorsi abbiamo parlato del caso che riguarda Giuseppe Ambrosino, ma oggi l’attaccante del Napoli è solamente uno dei tanti. Dopo aver brillato con la maglia della Primavera, la stella si spegne lentamente sulla panchina del Como. Sono lontani i tempi dei gol a raffica, sebbene appaia ricordarsi bene come si faccia. Mentre attende ancora l’esordio in Serie B, la Nazionale Under 20 gli concede l’occasione per sgranchirsi un po’ le gambe. Con l’Italia fa quello che sa fare meglio: prima con un tiro dalla distanza, un destro che spedisce il pallone a pochi centimetri dall’incrocio dei pali, e poi di testa, brutto e sporco, ma pur sempre efficace. Il messaggio è forte e chiaro, ma dall’altra parte non riceve risposte e, quando torna in Lombardia, si accomoda nuovamente a bordo campo.
L’allarme sulle nuove generazioni calcistiche continua a suonare instancabilmente. La vittoria dell’Europeo ha mascherato una questione che è rimasta irrisolta e che di fronte all’apertura di un nuovo ciclo è tornata a palesarsi. Oggi l’indifferenza degli ultimi anni presenta il conto. Un fardello tutto sommato sorvolabile nei successi, con la stampa che inneggia ad un ritrovato ottimismo dopo aver battuto l’Albania; appare insostenibile, invece, quando appena 5 giorni dopo si torna a casa con la coda tra le gambe, dopo una magra figura contro l’Austria. Insomma, se si vince va tutto bene; se si perde, ci si ricorda di quel difetto di fabbrica.
Secondo i dati elaborati dall’ultimo report del CIES, la Serie A è il campionato in cui le squadre mostrano la percentuale più bassa di calciatori formati nel proprio vivaio. Ultimi in tutta Europa, con appena l’8,4%. In Germania ed in Inghilterra il tasso è poco superiore al 13%; in Francia siamo intorno al 14%; in Liga, invece, il 21,7% dei calciatori è cresciuto nel settore giovanile del club in cui milita. Ma è possibile che se i giovani non emergono o faticano ad affermarsi sia esclusivamente colpa loro?
Non è plausibile credere alla versione secondo cui in Italia non ci siano più talenti. I giovani ci sono, scalciano e hanno fame, ma si scontrano contro un muro edificato a più strati. La verità è che i fatti sono inversamente proporzionali alle parole spese in tutti questi anni, e nonostante le premesse – e le promesse – nessuno pare realmente intenzionato a cambiare il flusso delle cose. Nella stragrande maggioranza delle società italiane, l’attenzione rivolta al settore giovanile è marginale, minima, per non dire assente. Di conseguenza mancano figure professionali ad hoc, con preparazione e competenze atte a scovare e forgiare i calciatori del futuro. Manca una progettualità altrettanto specifica, rivolta alla valorizzazione dei singoli. La programmazione è molto spesso approssimativa, sostanzialmente improvvisata. Insomma, in un Paese che deve ripartire dai giovani, i giovani sembrano essere l’ultimo degli interessi.
In Italia in pochi hanno il coraggio di rischiare, perché in fin dei conti soprattutto di questo si tratta. Schierare un ragazzo senza esperienza, senza garanzie, magari sopraffatto dall’emozione e dalla pressione delle prime volte, è certamente un rischio. È chiaro che più sono importanti gli obiettivi, maggiori sono le responsabilità e minore è la possibilità di sbagliare. Emblematiche sono le parole di Gianpiero Gasperini, in uno sfogo dopo la sconfitta con il Lecce: “La società deve avere il coraggio di fare delle scelte e fissare degli obiettivi, perché non si può ottenere tutto. Mi faccia capire se si vuole vincere o valorizzare i giovani, io mi adeguerò di conseguenza”.
Ma la Serie A è solamente la punta di un iceberg che coinvolge per intero lo stucchevole sistema calcistico della penisola. C’è bisogno di una rivoluzione che parta da lontano. Prendiamo come esempio le tre formazioni che guidano i tre gironi di Serie C. L’undici tipo del Pordenone ha un’età media di 27,7 anni; saliamo a 29,2 per il Catanzaro; siamo addirittura a 29,4 per la Reggiana. E sapete quanti under 23 ci sono tra questi trentatré calciatori? Appena due. È evidente, dunque, che il problema sia ben più profondo e radicato di quel che si può immaginare.
I giovani ci sono, ma serve fiducia e pazienza. Oggi ci si affretta con i giudizi: qualche spezzone di partita – se sono fortunati –, qualche giocata poco convincente e si fa presto a bocciarli. Molti finiscono poi a giocare in categorie minori, per un anno, magari due, a volte anche tre, non tenendo conto che la crescita arriva solitamente mettendosi alla prova con i migliori. Altrimenti, la controindicazione è che si finisca per adagiarsi nella mediocrità, pregiudicando qualsivoglia sorta di prospettiva. Serve il coraggio di lanciarli, dargli minutaggio, con continuità, offrendogli anche la possibilità di sbagliare, e successivamente valutarli.
Consideriamo alcuni casi “nazionali”: se Mancini non avesse scelto di presentare al grande pubblico Nicolò Zaniolo, quanto tempo gli sarebbe servito prima di affermarsi? Se non avesse fatto lo stesso con Willy Gnonto – che sapientemente era fuggito in Svizzera per avere spazio – chi se ne sarebbe accorto? Se la Juventus non si fosse cappottata, elemosinando disperatamente soluzioni, avremmo scoperto Miretti e Fagioli? Menzioniamo anche Destiny Udogie, oggi tra i migliori laterali mancini in Italia e già promesso al Tottenham per 20 milioni. Eppure, per Ivan Juric ai tempi di Verona non era in grado di mettere in discussione il posto di Lazovic.
Basta una sola mano per tenere il contro dei club che hanno una politica chiara e delineata in materia di giovani. Da troppi anni, sempre gli stessi. L’Atalanta oggi schiera Okoli (2001) e Scalvini (2003) tra i propri titolari, ha in panchina Ruggeri (2002) e ha recentemente venduto Amad Diallo (2002) al Manchester United per 25 milioni di euro. Lorenzo Pellegrini è ormai un punto fermo della Roma, ma in futuro potrebbero aggiungersi anche Bove e Volpato (2002). Negli ultimi anni, i giallorossi hanno messo a servizio della Nazionale anche Frattesi, Scamacca e Luca Pellegrini (1999). Anche l’Empoli si sta dimostrando una società consolidata in tal senso. Oggi schiera abitualmente Parisi (2000) e Baldanzi (2003), sta dando spazio a Fazzini (2003) e ha lanciato Samuele Ricci (2002), ora titolare al Torino.
La fotografia è racchiusa nelle parole del direttore sportivo Walter Sabatini: “Vedo allenatori e dirigenti che prima di far giocare un ragazzo del 2002 si fanno il segno della croce”. E stiamo parlando di classe 2002, ventenni, quando all’estero non si pongono problemi a mandare in campo ragazzi di 17 e 18 anni. Fa sorridere, ma anche riflettere: quando un italiano muove i primi passi in Serie A, un coetaneo spagnolo o tedesco ha già un centinaio di partite alle spalle. E poi ci chiediamo ancora perché i giovani stranieri siano più pronti dei nostri. Bisogna invertire la rotta, e bisogna farlo ora. Domani potrebbe essere già tardi.