“Festa” della donna, le “Giovinette” che sfidarono il duce

Il pregiudizio nei confronti del Calcio Femminile arriva da lontano. La storia delle "Giovinette" porta alla luce silenzi e riflessioni.

Articolo di Chiara Frate08/03/2022

© FOTO DALL’ARCHIVIO DI FRANCESCO BACIGALUPO

Oggi, 8 marzo, è la festa della donna e noi di Sport del Sud approfittiamo di questa grande occasione per fare i più calorosi auguri a tutte le donne che ci seguono. Non potevamo cogliere un’occasione migliore per raccontare la storia di un gruppo di trenta ragazze tra i 15 e i 20 anni che nel 1933 fondarono la prima squadra di calcio femminile in Italia. Una storia che rischiava di tramontare, persa negli almanacchi del calcio e della politica italiana, sepolta in quel ventennio fatto di restrizioni, regole e apparenze.

“Queste ragazze sapevano bene qual era la morale dell’epoca e cosa voleva dire vivere in un regime totalitario e praticare il calcio, sport appannaggio dei maschi”, afferma Federica Seneghini, giornalista e autrice del libro che racconta la loro storia Giovinette – Le calciatrici che sfidarono il Duce (Ed. Solferino Libri, 2020). “Il regime fascista in un primo momento non sa cosa dire rispetto a questa iniziativa, ma ci penseranno i giornalisti legati al potere ad attaccarle con articoli pieni di pregiudizi”, continua.

“Le giovinette” non si fecero intimidire e l’11 giugno del 1933, meno di un anno dopo l’avvio della squadra, a Milano, in un campo vicino a viale Melchiorre Gioia, si giocò la prima partita di calcio femminile aperta al pubblico.

Tratta da “Il Calcio Illustrato”, 1933: la prima foto ufficiale di gruppo, inviata a tutte le redazioni dei giornali.

Fu la prima di due partite che le ragazze giocarono tra di loro. Al bordo del campo c’erano circa mille persone tra curiosi, appassionati, parenti, amici. Sostenevano la squadra anche alcuni famosi calciatori dell’epoca come Gianpiero Combi, portiere della Juventus e della nazionale italiana. Un sostegno indiretto arrivò anche dai giocatori dell’Ambrosiana-Inter, che coi loro colleghi cecoslovacchi dello Sparta Praga andarono a vederle in occasione della seconda e ultima partita pubblica, giocata a Milano nel luglio 1933.

Pur di giocare e di non andare contro la morale dell’epoca si erano date anche delle regole sul campo molto stringenti. 

“Scesero in campo con delle gonnellone invece dei classici pantaloncini», ricorda Federica Seneghini, “perché avrebbero dettato scandalo nel far vedere le gambe al pubblico. Si dettero anche delle regole di gioco diverse da quelle del calcio maschile.  Innanzitutto, la palla era più piccola e leggera, i tempi non erano di 45 minuti ma bensì di 20. I passaggi poi dovevano essere solo rasoterra. In porta fu deciso di mettere dei ragazzi presi dalle giovanili dell’Ambrosiana-Inter perché il ruolo del portiere era considerato il più a rischio. I medici dell’epoca pensavano che una pallonata al basso ventre avrebbe potuto mettere a rischio la fecondità di queste ragazze e questo non era tollerato dal regime fascista perché far figli era quasi un obbligo per le donne”.

Nel massimo splendore il movimento arrivò ad avere sino a 50 calciatrici, ma la storia fu brevissima. Le ragazze giocarono ancora per qualche mese e poi furono costrette a smettere nell’ottobre del 1933. 

L’avvento di Achille Starace alla presidenza del Coni cambiò tutto: le donne dovevano fare degli sport più consoni a loro e vincere delle medaglie utili alla causa del Paese:

“Il regime in quel momento guardava ai campionati mondiali di calcio maschile del 1934 e alle Olimpiadi di Berlino del 1936. E proprio in vista di questo appuntamento in Germania, voleva formare delle atlete in grado di poter portare a casa delle medaglie più che lasciare delle ragazzine giocare a calcio. E poi questo sport, a detta di molti dell’epoca, non era adatto alle donne per dei pregiudizi che ancora oggi ci portiamo dietro.”

Pregiudizi che hanno una storia che va oltre il 1933. 

Un passato da non dimenticare

La storia delle giovinette è soltanto uno dei tanti esempi di women empowerment, coraggio, umiltà, ma soprattutto spirito di sacrificio.

La maggior parte delle persone quando pensa alle donne negli anni della prima guerra mondiale le immagina in piedi in un salotto o in una cucina, un grembiule intorno alla vita, lo sguardo rivolto fuori dalla finestra in attesa del ritorno dalla guerra del proprio marito, padre, figlio o fratello. Questa immagine della donna come “angelo del focolare” è la più comune e la più usata per descriverla e, d’altronde, non è da biasimare chi pensa a loro così, perché si è sempre parlato poco del ruolo della donna nel passato.

L’immagine su cui concentrarsi dovrebbe essere differente, cioè quella di una donna che si è dovuta rimboccare le maniche per affermarsi in una società con una visione prettamente misogina, quelle donne che hanno attuato una vera e propria ‘rivoluzione femminile’ che ha messo in discussione e trasformato la rigida e precisa divisione dei compiti produttivi e dei comportamenti in base al sesso; una distinzione tra uomini e donne che, pur in una vasta gamma di varianti, è il quadro costante delle civiltà e culture del passato e ancora di tante aree del mondo presente.

Bisogna ricordare quelle donne che nonostante le diverse imposizioni sono scese in campo con un gonnellone per inseguire un’unica e grande passione: il calcio. Ed è anche grazie a loro se ad oggi questo sport non è più esclusivamente “materia di uomini”, ma di tutti.