Il diario di Darwin: il mestiere del giornalista e le sue sfumature

Sport del Sud raccoglie i ricordi, gli appunti e le nostalgie di Darwin Pastorin. La seconda istantanea si focalizza sul mestiere del giornalista.

Articolo di Darwin Pastorin09/02/2022

La redazione di Sport del Sud ha lo straordinario vanto di poter annoverare tra le proprie colonne alcune storiche e prestigiose firme del giornalismo italiano. In questa formazione d’élite si schiera Darwin Pastorin, persona eccezionale ancor prima che professionista esemplare. Abbiamo avuto il piacere di poter scambiare anche questa settimana qualche chiacchiera con lui, ripercorrendo le tappe principali della sua carriera. Abbiamo colto al volo l’occasione anche per farci raccontare qualche simpatico aneddoto legato ad esperienze e ricordi vissuti in prima persona con alcuni protagonisti del calcio italiano.

Un mestiere, quello del giornalista sportivo, che è profondamente cambiato nel corso del tempo. E Darwin ce lo ha confermato, attraverso il racconto delle confidenze e delle intimità che nascevano dal contatto con i calciatori. La distanza si azzerava, fino a costruire dei rapporti puri, fraterni. Alla carta stampata, che pur presenta ancora onorevoli penne, oggi si è affiancato il web, sorgente di nuove opportunità. Ed infine, qualche semplice ma prezioso spunto per tutti i giovani che si accingono ad entrare in questo mondo. Sfogliamo insieme, dunque, altre pagine del diario di Darwin Pastorin.

Partiamo dalle origini: da dove è nata la tua passione per il giornalismo sportivo?

Vedi, i giornali sono sempre entrati in casa mia perché i miei genitori avevano abbonamenti a La Stampa e ad altre riviste. Fin da piccolo compravo Tuttosport perché ero tanto appassionato di calcio. Calcio e libri sono sempre state le mie due grandi passioni. Pensa che in terza elementare il maestro Ugo Pagliuca, lo ricordo ancora, ci pose la classica domanda su quale fosse il nostro mestiere dei sogni. Le risposte dei bambini, come puoi immaginare, furono le solite: chi il dottore, chi l’astronauta, qualcuno anche l’operaio, perché allora la Fiat a Torino andava molto forte. Io invece no. Risposi che avrei voluto fare il giornalista sportivo.

Leggevo principalmente il Guerin Sportivo, dove imperversava Gianni Brera, Tuttosport, dove avevo come punto di riferimento Vladimiro Caminiti, e La Stampa, dove dal 1969 comincia a scrivere Giovanni Arpino. Posso dire che Caminiti è stato il mio modello per il giornalismo, mentre Arpino per la letteratura.

Come hai iniziato? Quali sono state le tappe principali del tuo percorso?

Il mio primo giornalino fu un successo straordinario perché la prima e unica copia fu subito venduta a 10 lire: erano giusto due fogli disegnati e scritti a mano quando ero piccolo. La comprò mia mamma (ride, ndr). Scherzi a parte, al liceo avviai una collaborazione con un settimanale che si occupava di serie minori chiamato Piemonte Sportivo. Questo per me significava andare la domenica mattina nei campi di provincia per raccontarne le partite. Allo stesso tempo la sera mi recavo in tipografia a fare i titoli, i catenacci, gli occhielli. Insomma, facevo la gavetta.

Nel ’74, finita la maturità, bussai alla porta di Tuttosport, dove mi accolse il direttore Gianpaolo Ormezzano. In settembre mi pubblicò il mio primo articolo in terza pagina, dove venivano inserite interviste, inchieste o racconti di un certo tipo. Io presentai la storia di Vincenzo Marino, centravanti prima del Brescia e poi del Brindisi, che era figlio di amici di famiglia di quando eravamo in Brasile. Dopo un anno, poi, cominciai a collaborare con Calciofilm, un settimanale dedicato alla Juventus e al Torino.

La mia carriera vera e propria comincia nel ’76 quando Italo Cucci telefona a casa dei miei genitori e mi dice: “Caro Darwin, Carlo Nesti non è più un nostro corrispondente perché è stato assunto da Tuttosport. Mi hanno fatto il tuo nome e vorrei metterti alla prova”. Pensa che ho scoperto solamente nel 2003, leggendo l’autobiografia di Cucci “Un nemico al giorno” (Limina, 2003), che a fare il mio nome era stato Giovanni Arpino, con la premessa che fossi talmente bravo che non avrei trovato da lavorare a Torino. A settembre il Guerin Sportivo pubblica il mio primo articolo – un’intervista a Cabrini, Tardelli e Alberto Marchetti – e comincio a fare il corrispondente da Torino. Ho vissuto due stagioni splendide: ho iniziato a girare l’Europa da inviato ed è stata un’esperienza magnifica.

Giovanni Arpino, giornalista, scrittore e poeta

Poi sei tornato nuovamente a Tuttosport.

Sì. Nel ’79 Pier Cesare Baretti mi riportò a Tuttosport, dove sono rimasto per circa 20 anni. Sono diventato inviato speciale e, devo ammetterlo, sono stato estremamente fortunato perché ero in Spagna nel Mondiale ’82. È stata un’emozione fortissima, credimi. E mi viene un magone tremendo a pensare che alcuni personaggi come Paolo Rossi, Scirea e Bearzot non ci siano più. Mi piange veramente il cuore.

Nel ’98 poi divento direttore di Tele+ per un anno, prima di passare a Stream TV e poi a Sky Sport in qualità di direttore Nuovi Programmi. Negli anni successivi sono stato anche direttore di La7 Sport e Quartarete TV. Ora ho un blog su Huffington Post e collaboro con diversi siti, tra cui voi di SportSud, e continuo ancora a coltivare questa mia passione.

La settimana scorsa ci hai raccontato del rapporto confidenziale che si creava tra giornalisti e calciatori qualche decennio fa.

Bhe, sì. Assolutamente. Tra noi e i calciatori si creava un rapporto che andava oltre l’intervista. C’erano incontri, confidenze… Noi imparavamo a conoscere il loro mestiere e loro imparavano a conoscere il nostro. Io avevo un grande rapporto con Pablito Rossi, Scirea, Gentile, Zoff, Júnior… Potrei continuare all’infinito. Poi chiaramente c’è stato l’incontro straordinario con Maradona, ma quello appartiene ad un’altra categoria.

Ci puoi raccontare qualche aneddoto?

Di aneddoti ce ne son tanti. Ad esempio, te ne posso raccontare uno simpatico che riguarda Stefano Tacconi. Doveva andare a Coverciano per rispondere alla sua prima convocazione in Nazionale, così io gli diedi alcune indicazioni per arrivare sul posto. Trascorse un po’ di tempo e mi chiamò di nuovo. “Ascolta Darwin, c’è un problema. È successo un casino: ho sbagliato un’uscita”, ammise disperato. E io, di risposta, sbottai: “Ma come? Stefano, sei appena arrivato e già cominci a far papere. Guarda che così non ti tengono!”. Avevo inteso che avesse commesso un errore tra i pali; invece, Tacconi aveva sbagliato l’uscita autostradale per arrivare a Coverciano e si era perso (ride, ndr).

Stefano Tacconi con De Agostini, Marocchi e Schillaci durante il ritiro di Italia ’90

O ancora ti posso raccontare di una serata con alcuni giocatori del Torino. C’era Júnior che suonava il pandeiro, Corradini che suonava la chitarra, c’era Edinho e ci raggiunsero anche Luvanor e Pedrinho. Tra musiche e canzoni, un po’ brasiliane e un po’ italiane, facemmo le ore piccole. Quando poi uscimmo dal locale e continuammo a canticchiare anche per strada, un povero uomo si affacciò dalla finestra di casa sua e ce ne urlò di tutti i colori. Nella nebbia non ci riconobbe, ma aveva tutte le ragioni di questo mondo. Non gli avevamo fatto chiudere occhio (ride, ndr).

E poi, per farti capire il personaggio di Paolo Rossi, ti posso raccontare anche di quando con Marco Bernardini, mio collega e amico fraterno, facevamo una trasmissione con una rete privata regionale che si chiamava “Tutti casa, stadio e …”. In questo programma facevamo interviste di mezz’ora ai giocatori parlando il meno possibile di calcio e lo facevamo in location particolari: ad esempio, abbiamo portato Tardelli allo zoo, oppure Causio al circo. Chiamammo anche Pablito, che accettò senza esitazione. Gli demmo appuntamento per il giorno seguente alla Chiesa della Gran Madre di Torino, per spostarci poi insieme alla mostra di Calder. La mattina successiva Paolo si presentò pallido, bianco cadaverico, in condizioni pietose. Aveva avuto un’indigestione ed era stato male tutta la notte, ma non volle venir meno alla promessa che ci aveva fatto. E che sia chiaro: all’epoca nessuno chiedeva neanche una lira per fare queste interviste.

Marco Bernardini, Paolo Rossi e Darwin Pastorin

Darwin, rispetto a quegli anni sono cambiate tante cose. In particolare, le tecnologie digitali si sono sostituite alla carta stampata. Pensi che il giornalismo stia cambiando in meglio o in peggio?

Oggi c’è un racconto calcistico e sportivo stupendo se penso a Sky, ad esempio, con i lavori di Buffa, Porrà o Marani. E sta prendendo sempre più forza il web. Il lavoro che state facendo anche voi con SportSud è da elogiare. Ci sono pezzi scritti bene, ci sono storie, c’è la cronaca, l’attualità. C’è tutto, come in un vero e proprio giornale. In generale se uno va a cercare un po’ sul web si possono trovare davvero dei bei racconti. Penso ad esempio a Remo Gandolfi, giornalista e scrittore, che narra delle storie meravigliose di un calcio passato, sia italiano che internazionale. È la forza del web e può offrire una grande opportunità a voi giovani. Oggi la televisione è fortissima e i media stanno crescendo, ma ci sono grandi narratori anche sui quotidiani.

Chiudiamo con un consiglio per noi giovani: nella cassetta degli attrezzi di un giornalista, quali sono gli strumenti che non possono mancare mai?

Un tempo ci sarebbero dovute essere obbligatoriamente le scarpe da consumare, perché bisognava andare continuamente in giro alla ricerca delle notizie e delle storie. Poi è fondamentale avere una buona base culturale. Bisogna essere curiosi e bisogna essere dei grandi lettori. La lettura aiuta tantissimo ed è per questo che invito sempre i giovani ad andare a rileggere i grandi maestri del passato. La carta stampata era la televisione dell’epoca ed era l’unico modo per vivere il calcio. I racconti sono tutti lì. E non solo quelli calcistici. Quando andavo a seguire la Copa America in Sudamerica era emozionante dar voce anche alle storie dei personaggi estranei alla manifestazione che incontravi. Si potevano narrare splendidi estratti di vita.

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