Guida galattica ai problemi del Napoli. Capitolo 1: la fase offensiva

Le vertigini dei piani alti hanno nascosto i sintomi di un Napoli in cortocircuito. Con risultati deludenti, tutti i nodi vengono al pettine. La prima diagnosi racconta di una fase offensiva che non fa paura a nessuno.

Articolo di Luca Paesano09/03/2022

© “NAPOLI-OSIMHEN” – FOTO MOSCA

Il Napoli non fa più paura. E non da ora, ma da diverse giornate. Le vertigini dei piani alti sono riuscite fin qui a nascondere le insicurezze, le mancanze e le fragilità di questo organico. Con la rosa a pieno servizio, l’undici di Spalletti ha girato in maniera impeccabile. Poi, qualcosa nell’equilibrio del gruppo si è rotto a partire dalla prima tornata di infortuni.

Dell’ottimo avvio di stagione è rimasta la buona organizzazione e solidità della difesa. Ancor oggi, infatti, il Napoli è la squadra meno battuta dell’intero campionato e con il portiere, Ospina, che ha collezionato più clean sheets fin qui. Rrahmani ha sostituito con ottimi risultati Manolas, con la testa in Grecia ancor prima che il campionato iniziasse. Juan Jesus, il cui acquisto aveva fatto storcere il naso a molti, ha risposto positivamente rimpiazzando Koulibaly e talvolta anche Mario Rui. Non ha sfigurato neanche Ghoulam, lontano dai fasti di un tempo, nelle due volte in cui è stato chiamato in causa nell’emergenza Covid.

Qualche sbavatura chiaramente c’è stata e ci è costata anche cara. Pensiamo, ad esempio, al goffo autogol di Juan Jesus che ha regalato la vittoria allo Spezia, al rocambolesco flipper che ha concesso il pareggio all’Inter o alle disattenzioni che hanno permesso al Sassuolo di rimontare ben due reti. Poco da lagnarsi, comunque. Mantenendo queste medie (0,71 gol subiti a partita), gli azzurri potrebbero concludere il campionato con meno di 30 reti incassate. Un numero che negli ultimi 10 anni è riuscito solamente a Juventus (6 volte), Roma (2 volte) e Napoli.

Un Napoli che non fa paura

Ciò che invece si può considerare più allarmante è la fase offensiva. Era addirittura il 13 novembre quando già vi parlavamo di un Napoli poco cinico, denunciavamo la scarsa concretezza in fase realizzativa. Primo posto in classifica dopo 12 giornate, nessuna sconfitta, 2 pareggi e 10 vittorie: cosa c’era da criticare? Nulla, se non un appunto che poi si è dimostrato sintomo latente. Tanti tiri, pochi nello specchio della porta e ancor meno trasformati in gol.

A distanza di quattro mesi ben poco è cambiato. Anzi, i numeri sono anche peggiorati. Attualmente il Napoli ha realizzato 49 gol su 444 tiri totali, con una percentuale realizzativa che è calata dal 12,77% di novembre all’11,03% attuale. Tra le prime dieci squadre della classifica, solamente Juventus e Roma hanno una statistica peggiore.

E oltre ai numeri, a destare preoccupazioni c’è soprattutto la qualità. Da qualche tempo, il palleggio è statico, lento, leggibile, per larghi tratti noioso e frustrante. È raro, nonostante l’esplosività di Osimhen, che si veda una ripartenza in campo aperto, ad esempio. Mancano i capovolgimenti di fronte, i cambi di gioco, gli scambi nello stretto e un’idea verticale. Latita anche il gioco sugli esterni e, di conseguenza, i cross in area, nonostante il centravanti nigeriano abbia palesato ottime capacità nel gioco aereo. Attualmente, il Napoli non dà mai l’impressione di poter essere pericoloso o di poter inventare dal nulla una giocata in grado di rompere gli equilibri. Sull’intraprendente squadra degli albori è ricaduto d’un tratto un mantello di apatia.

Piano A: un cortocircuito tattico

Ma ad oggi, qual è il piano tattico del Napoli? Quali sono i fili che muovono la fase offensiva degli azzurri? Guai all’imprevedibilità, si gioca sempre a squadra schierata. Mario Rui occupa una posizione interna, mentre Di Lorenzo si sgancia dalla linea difensiva per stazionare sull’esterno di centrocampo. Dei due mediani, quello mancino diventa il vertice e il riferimento centrale, quello da cui devono transitare tutti i palloni da smistare; quello destro, invece, spesso scivola sull’esterno ad occupare il vuoto lasciato da Di Lorenzo. Di fatto, ci sono due linee da tre ed una da quattro, composta dai due esterni, Zielinski ed Osimhen.

La “strategia d’attacco” è elementare: muovere la palla cercando in qualche maniera di servire i quattro della linea più avanzata, il cui unico movimento consiste nel venire talvolta in contro per offrire una soluzione aggiuntiva. L’origine del cortocircuito risiede nel fatto che gli attaccanti, a maggior ragione se statici, vengono agevolmente marcati dai difendenti avversari: a uomo se si adotta una difesa a quattro, o addirittura in superiorità se si utilizza una difesa a cinque. E se Zielinski si abbassa tanto da non poter essere seguito dal difensore? A quel punto è preda dei centrocampisti avversari.

In queste circostanze, la risultante principale è che o si finisce per essere costretti ad abbassare il proprio baricentro per effetto della pressione avversaria, fino a ritornare dal portiere, oppure si perde il possesso a seguito di giocate forzate e di interventi rivali.

Piano B: palla ad Osimhen

Ma come ogni valido esercito in battaglia, esiste anche un “Piano B”, che molto spesso in realtà è il “Piano A”: palla ad Osimhen. Sui piedi, in petto, in testa, corta o lunga, per un appoggio ai compagni o per uno scatto dei suoi, o anche semplicemente per trattenerla e far guadagnare qualche metro alla sua squadra. Il nigeriano ci prova, si batte a destra e a manca e ci mette tutto l’agonismo e la buona volontà. La sua dedizione è innegabile.

Anche questo scenario, però, non sembra così redditizio. Innanzitutto per le evidenti lacune tecniche dell’ex Lille, che fanno da contrappeso alle superlative doti fisiche e che rendono poco congeniale il suo continuo coinvolgimento. Lo dimostra un misero 65% nella precisione passaggi. In secondo luogo, perché si ritrova molto spesso isolato, circondato da maglie nemiche, eccessivamente responsabilizzato per la sua velocità straripante. Nel calcio non basta e il suo biennio napoletano lo ha provato.

Per tornare a far paura il Napoli ha bisogno di ben altro. È necessario introdurre dinamismo e vitalità alla manovra. Servire Osimhen non è abbastanza per rendersi pericolosi. Anzi, la prevedibilità della soluzione rappresenta un vantaggio per i difensori avversari. Bisogna accompagnarlo, riempire l’area, attaccare in massa. E soprattutto bisogna riabilitare gli esterni inspiegabilmente estromessi da questo sistema di gioco.

Le fasce del San Paolo hanno illuminato le notti azzurre: da Maggio e Zuniga all’asse Insigne-Ghoulam e Callejon, il Napoli ha costruito le proprie fortune sviluppando il gioco in ampiezza. E non si tratta solamente delle due ali, che gravitano in maniera non ben definita sul centro-sinistra e sul centro-destra della trequarti. Ma anche e soprattutto della spinta dei terzini, il motore del calcio moderno.

Ora, d’un tratto, si rinnega il passato per proporre insistentemente una manovra centralizzata, ripetitiva, apatica. Ma questo è un capitolo che meriterebbe un discorso a parte.