Il virus dei fantastici perdenti

A Napoli da circa 10 anni c'è la generazione dei fantastici perdenti, che, ogni volta che vedono il cartello “ultimo km”, bucano la ruota.

Osimhen
Articolo di Vincenzo Imperatore11/04/2022

©️ “OSIMHEN” – FOTO MOSCA

Non sono i soldi, la “ricchezza”, le posizioni alte, i gradi, i titoli, i risultati in scienze, affari o arte i criteri per non essere riconosciuti come perdenti nella vita.

Nonostante la società utilizzi questi “indicatori” per individuare le persone che hanno successo: pensate ad esempio a grandi artisti come Gauguin e Van Gogh considerati dei perdenti nella vita perché avevano bisogno di soldi.

La connotazione di perdente ha, invece, una diretta relazione con la psiche e con l’acido desossiribonucleico.

Ho visto tanti perdenti, ricchi e famosi e molti vincenti senza stelline sulla giacca.

Il perdente non è colui che colleziona una sconfitta dopo l’altra, né colui che ha appena perso. Perdente è un aggettivo (etichetta) che ha connotazioni che vanno ben oltre. Dire che qualcuno è un perdente o assumere consapevolezza di essere un perdente impregna lessere.

Diventa parte della natura dell’essere. Pertanto, di qualcosa di immutabile.

Che non cambierà mai e che, pertanto, si configura come una condanna per il futuro.

L’essere un perdente annulla la motivazione all’apprendimento perché ci invia il seguente messaggio: “non importa quello che imparo e da chi lo imparo, tanto sarò sempre un perdente”.

Il perdente non riesce a superare questo blocco mentale attraverso il cambiamento, indipendentemente da chi lo governa.

Pensate alla generazione dei fantastici perdenti che a Napoli e nel Napoli, da circa 10 anni non riesce a “cambiare” quel pensiero infiltratosi nella profondità del loro essere.

Quella generazione formatasi all’indomani della partenza di Mazzarri che aveva invece a disposizione un gruppo di modesti giocatori con la predisposizione, però, a sconfiggere il perverso meccanismo mentale basato sull’assunto che “il passato è il miglior profeta del futuro”.

Ci hanno provato tutti. Allenatori dal passato glorioso e vincente come Benitez e Ancelotti, altri mai vincenti e con gli “occhi della tigre” come Sarri e Gattuso, infine un mister stagionato e “filosofo”. La società ha provato scegliendo allenatori con stili di leadership differenti (“calmo”, aggressivo, meditato, “velenoso”), modalità di guida variegate che nulla hanno potuto nei confronti della testa dei fantastici perdenti che, ogni volta che vedono il cartello “ultimo chilometro”, bucano la ruota.

Niente da fare, siamo di fronte ad un nugolo di atleti con un “locus of control esterno”: l’Inter ed il Milan potrebbero pure perdere tutte le partite da qui alla fine del campionato ma loro non riuscirebbero comunque a vincere lo scudetto perché sarebbero sconfitti nella partita decisiva anche da una squadretta messa in piedi da me ed i miei amici.

Perdenti inside!

Eppure il calcio è un gioco meraviglioso. Lo è perché il risultato finale non dipende prevalentemente dalla fortuna, bensì dall’esperienza e dalla “testa“ dei giocatori. Chi vince sa che avrebbe potuto perdere e che le sue giocate hanno fatto la differenza, chi perde sa che avrebbe potuto vincere e che anche le sue giocate hanno fatto la differenza.

Nel calcio, quindi, come in molti altri sport e nella vita, esiste l’errore, così come pure la sconfitta.

Esiste comunque una netta differenza tra errore, sconfitta e l’essere un perdente.

Gli errori esistono, perché l’essere umano non è perfetto ed esistono strategie ed approcci che possono essere sempre migliorati, soprattutto se adottiamo il punto di vista di chi ha appena perso.

Avrei potuto giocare meglio”, ripete anche il più fatalista dei calciatori.

Perché la sua sconfitta è ben lontana dall’essere un fallimento, giacché la prossima partita richiederà altri comportamenti da cui imparare, per migliorare e fare la differenza. La sconfitta offre ottimi elementi per riflettere.

In questo senso, l’investimento di tempo dello sconfitto (non del perdente) è stato proficuo, probabilmente molto più di quello del vincitore.

Ma, nel caso della banda dei “fantastici perdenti”, è sempre stata solo una dichiarazione di intenti. La storia degli ultimi dieci anni, inutile ricordare date e risultati, lo ha dimostrato.

Il fantastico perdente non ha mai ribaltato questo approccio.

Non ha mai rafforzato i suoi orientamenti ai momenti “decisivi” e quindi è più difficile che, anche in queste ultime sei partite, trovi delle ragioni per metterle in discussione.

Anche gli “errori di un tecnico” (e ieri ce ne sono stati) sono messi in discussione da un vincente in campo che invita a riflettere in maniera determinata il suo allenatore.

Ieri il povero Mario Rui, uno dei pochi ad avere sangue caldo nelle partite topiche, aveva bisogno di un “capitano” in campo che urlasse nelle orecchie del “filosofo” che su quella fascia occorreva fare qualcosa: Elmas al posto di Insigne spostato a destra? Ghoulam al posto del piccolo Rui?

Non lo so, non sono un tecnico ma sono un attento osservatore delle dinamiche mentali di gruppo: pecorelle smarrite, facce rassegnate, “attributi” zero!

Molto probabilmente, se mai avessimo altre mille opportunità (ma si è stancato anche il destino), quegli approcci sarebbero ripetuti finché qualcuno non li batterà nella prossima gara “decisiva”.

Per questo motivo finora ero scettico e non mi ero illuso (benché amareggiato e fortemente dispiaciuto).

Perché pensavo che le vittorie delle ultime giornate avessero prodotto, prima o poi, il solito effetto “perdente”: con le vittorie si tende a ridurre gli investimenti in determinazione, ecco perché è così dolce.

Il nostro cervello tende a risparmiare energia e la vittoria, di solito, è un sostegno ingannevole in tal senso.

Fantastici, simpatici, “bravi guagliune” ma perdenti.

È il momento di fare piazza pulita del virus. Perché non rappresentano un castigo divino, sono stati scelti.

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