A 40 anni dal Mundial: ricordando gli «eroi» attraverso la saga di Franco e Silvio
Il commovente ricordo del maestro Roberto Beccantini dei suoi ex colleghi, Franco Mentana e Silvio Garioni.

Oggi sono 40 anni. Perdonami, lettore, se per ricordare gli eroi dell’Ottantadue parlo di noi. Di due di noi. Che erano là, in Spagna, e li raccontarono: da Vigo al Bernabeu. Franco Mentana e Silvio Garioni. Franco, calabrese del 1923. Silvio, milanese del 1940. Franco ci ha lasciato nel 1997, Silvio nel 1991.
Grandi inviati, grandi cronisti, ai tempi in cui se davi a uno della «tigre di carta» non lo prendevi per il sedere: gli facevi un complimento. Franco Mentana detto «frame»: tarchiato, baffetto non proprio circasso, pupille che erano fari. E più moccoli che boccoli. Silvio Garioni detto Silvietto, erre moscia e riga fra i capelli. Il primo, cresciuto all’«Unità», batteva i marciapiedi come se fossero palazzi. Il secondo, sbocciato a «Tuttosport», batteva i palazzi come se fossero marciapiedi.
La bussola era la notizia: comunque, dovunque. Franco ti dava l’idea del giornalista da film, il toscano pendente e gli occhialini a mezz’asta, tanto per camuffare l’attacco e confondere la preda. Silvio, con quell’aria un po’ snob e le nuvole delle sigarette che ne accompagnavano l’ironia, pareva un corrispondente inglese. «Gazzetta dello Sport», Franco; «Corriere della Sera», Silvio: eppure amici per la pelle, anche in Spagna, anche sul crinale della concorrenza. Franco adorava il fatto; Silvio, il pretesto su cui costruire il pezzo. Si completavano.
Il Mondiale, quel Mondiale. Sino all’11 luglio, tutti Iago. Poi, dal 3-1 ai tedeschi, todos caballeros. Franco era bearzottiano sino alle suole, Silvio rompiscatole e cane sciolto, a volte fuoco amico e a volte cecchino. Uno stopper e una punta. Ma sempre, almeno loro, nel rispetto dei ruoli, delle funzioni, del galateo. A Spalato, nel 1988, il Vecio incontrò casualmente Silvio. Sorrise: «Garioni! Garioni! Era meglio quando litigavo con te, adesso litigo solo con mia moglie».
E «frame», lui, pur sodale del ct, visto che al telefono si negava gli inviò un telegramma. Uno a zero e palla al centro. Per motivi ancora misteriosi, F & S litigarono solo nel viaggio verso Città del Messico, nel 1986, salvo poi riconciliarsi al ritorno. All’epoca, lavoravo con Mentana in «Gazzetta». La sede era ancora in via Solferino. Accanto a me c’era Elio Corno. Dietro, Mino Mulinacci detto Mimù, fanatico di Giuseppe Garibaldi (e degli arbitri). Di fianco, isolato, Lodovico Maradei. Davanti a Mimù, ecco Franco con Angelo Rovelli. Angelo era il contrario di Franco: curava la forma, più lord che lordo di agguati, di appostamenti, felice se poteva celebrare un pareggio. E sia chiaro: generoso, non pavido.
Senza dimenticare la cabina telefonica. Troneggiava in un angolo. Ci si entrava per cacciare le notizie e domare le amanti, in gran segreto, sudando sudando. Non c’erano, allora, i telefonini, e quello fisso su ogni scrivania era troppo indifeso, troppo nudo. Meglio l’«antro di Polifemo», come la chiamavamo. Sulla porta si appostava, di solito, Roberto Milazzo. Marcava stretto il collega calatosi dentro: soprattutto se era David Messina. L’uomo mercato. L’uomo più «potente» della redazione perché teneva in ostaggio i titoloni. Non appena la porta si apriva, ne usciva un giornalista accaldato, la giacca abbandonata sulle spalle a mo’ di mantello, il foulard, l’enorme taccuino svolazzante, la penna ancora turgida. «Allora?» chiedeva Bob Milazzo non senza un pizzico d’ansia data l’ora. David si ravviava i capelli e buttava lì, metà giovane Holden e metà Wanda Osiris: «Pruzzo all’Atalanta». Milazzo se ne andava perplesso ma sazio. La prima era salva.
Mentana, nel frattempo, alzava la cornetta del suo telefono e con tono da cospiratore, nascosto tra il fumo del toscano, sussurrava: «Silvio, ci sei? Ti racconto l’ultima».