La bocciatura (sbagliata) dei voti: ormai li danno solo i giornalisti sportivi

In passato le pagelle erano espresse in trentesimi come gli esami universitari. E un po' come a scuola, da allora iniziò a dilagare il timore dei voti. Di aneddoti curiosi ce ne sono a profusione, tra questi quello di Maradona.

Articolo di Roberto Beccantini11/12/2023

Noi ragazzi del secolo scorso prendevamo i voti senza metterci il saio: se mai, sperando che mamma e papà non ci flagellassero. C’è chi trama per abolirli. Sarebbero obsoleti, classisti, arroganti. Una insufficienza equivale a una stroncatura che, seppur giustificata, crivella il pargolo e martella la famiglia. Le sconfitte dovrebbero spronare. Al contrario, deprimono. Fanno saltare equilibri, nervi, bilanci. E allora giù botte agli insegnanti.

Il dibattito è aperto. Presto, gli unici voti superstiti resteranno quelli che affibbiano i giornalisti sportivi. I primi a proporli furono Aldo Missaglia e Luigi Scarambone, in forza al settimanale «MilanInter». Distribuito ai cancelli di San Siro, debuttò il 23 ottobre 1945 e, secondo il racconto di Marco Benvenuto, «i giudizi erano espressi in trentesimi, come i voti universitari, ma riguardavano esclusivamente i calciatori delle due compagini milanesi». Con il miele, e non sempre il fiele, nella coda: «Al termine del campionato, chi aveva totalizzato il punteggio più alto vinceva un cronometro offerto dallo sponsor dell’epoca: il cavalier Bolletta».

La moda piaceva e si allargò (agli arbitri, pure). I Bar Sport ne diventarono ruspanti megafoni. «Stadio», a Bologna, si distinse per l’unità di misura: da 1 a 5. Gianni Brera, su «Il Giorno», spopolava e moltiplicava. Le copie, i copioni: da 1 a 10 e via col vento. Elio Domeniconi, cronista genovese, ne citava spesso un cammeo risalente alla milizia guerinesca: «Ricordo un pareggio dell’Inter nel derby con un gol di Boninsegna nei minuti finali. Brera gli aveva dato 5 perché aveva toccato solo quel pallone».

Fidatevi: se c’è una cosa che i protagonisti corrono a leggere, sono le pagelle, sono i voti. L’articolessa sul match – nello scrivere la quale ti sei spremuto come un limone e a volte, addirittura, come un leone – interessa, sì, ma viene dopo. Sono i 4 e gli 8 che accendono le risse. Gli estremi. Gli eccessi. «Un pomeriggio ci riunimmo con tutta la squadra: serpeggiò l’idea di dare, per una volta, noi il voto a loro»: parole e musica di Paolo Sollier, uomo di sinistra, ai tempi del Perugia.

Si narra che Diego Armando Maradona – lui, in carne e ossa -stesse per strapazzare il Catone ubriaco che aveva «osato» macellarne l’onore con un orripilante 3,5. Le partite sono compiti in classe e, dunque, vanno tollerati i mezzi, i più, i meno, financo i meno meno. Viceversa, andrebbero vivamente sconsigliati in estate, per i resoconti riassuntivi di fine stagione. Cifre tonde e stop: al diavolo i quattro virgola.
Di solito, lo scriba che commentava l’ordalia si incaricava anche dei voti. Non appena il calcio d’élite (e non) slittò verso la notte, il supplizio di redigere i profili passò a un «socio» fiancheggiatore, non senza accordi preventivi (e, «via» moviola, post-ventivi). Non mancavano le polemiche, gli scatti d’ira da parte dei trombati. In compenso rare, rarissime coccole da parte dei promossi. Direttore della «Gazzetta dello Sport», Gino Palumbo se ne uscì con un titolo che sollevò polvere da sparo: «Diamo un 4 a Bettega e vediamo che cosa succede». Era il 1977.

Assediati dai barbari del Fantacalcio, i giornalisti scelgono anche, e soprattutto, il Pallone d’oro, il massimo degli ossimori. Vi giro, in conclusione, questo amarcord di Italo Cucci: «C’ero, in redazione, la mattina che telefonò il presidente dell’Anconitana per sapere con quale criterio compilassimo il pagellone di “Stadio” e Albertazzi [un collega] rispose: “Nessun criterio”». Il conte Alberto Rognoni, fondatore del Cesena e 007 federale nascostosi nel bagagliaio di un’auto pur di smascherare un baro, preferiva «A pene di segugio». Voto?

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