Il mio idolo è stato Totonno Juliano
Antonio Juliano non è stato uno qualunque, non è stato solo un calciatore del Napoli e neppure solo un capitano: “Totonno” è stato un idolo. Il toccante ricordo di Vincenzo Imperatore.

Oggi piango come ho pianto per la morte di Maradona.
Il mitico capitano Totonno (Juliano), sedici campionati in maglia azzurra e primo napoletano ad essere convocato in nazionale, è scomparso. È stato il mio idolo.
Lo so che vi meraviglierete non trovando LUI su questo podio. LUI, Diego Armando Maradona, occupa un posto a parte nel mio immaginario. È stato il più grande di tutti, inutile scrivere cose già lette. Lui è mito. Il mito (dal greco racconto o parola) è riconosciuto tale da una collettività ed è il personaggio di un evento, qualcuno che compie un’impresa difficile, quasi impossibile.
L’idolo (dal greco figura, aspetto), invece, è un personaggio che si segue perché riflette il tuo modo di essere ma che può essere per gli altri del tutto indifferente. Un personaggio solitamente pubblico in cui molte persone si identificano o che ammirano. Il mito si stima. L’idolo si stima e si emula.
Juliano è stato un napoletano atipico o comunque estraneo agli stereotipi più abusati. Severi con se stessi e con gli altri, seri, orgogliosi, tenaci, poco inclini al compromesso, cultura del lavoro e riservatezza, tutt’altro che pizza e mandolini. Poco folclore e soprattutto niente vittimismo.
Forse per questo sono legato a lui.
Il “capitano” è stato il calciatore più venerato da mio padre. Litigava con tutti quelli che nel “loggione” del settore distinti dello Stadio San Paolo si permettevano di criticarlo. L’espressione più ripetuta, quando talvolta veniva fischiato, era: «… vuje nun capit niente! Juliano si fa uccidere per il Napoli, suda la maglia e poi è intelligente tatticamente… non ci merita!…». Perché Juliano aveva deciso di rimanere a Napoli, a difendere la sua Napoli, quando lo cercavano le squadre blasonate del Nord. La sua carriera, soprattutto in nazionale, nonostante la partecipazione a quattro mondiali, sarebbe stata diversa.
Una scelta che non tutti i napoletani riuscivano ad apprezzare. Ed ecco che addirittura lo giustificava quando Totonno, spesso imbeccato per quei pochi passaggi sbagliati, perdeva la pazienza e mandava “a quel paese” i tifosi critici ed ingrati. «… ahhh, ha fatt ‘bbuon! Chest v’ammeritate!» Ricordo ancora l’urlo, un misto di gioia e di vendetta, quando Juliano segnò a pochi minuti dalla fine il gol del pareggio contro la Lazio all’Olimpico e venne a esultare sotto la tribuna Monte Mario. Era l’11 dicembre del 1977 e si giocava la decima giornata del campionato di Serie A 1977-1978. Ci siamo mossi con il solito gruppo di quartiere che organizzava la “carovana” per la trasferta.
Partenza all’alba (!!!), panini e frittata di maccheroni, viaggio interminabile (se confrontato con i tempi di percorrenza di oggi) ma ricco di “colore” e di animati confronti sull’argomento riguardante la formazione che Di Marzio (il papà di Gianluca, attuale commentatore Sky), allenatore napoletano emergente e abile comunicatore (nel dna di famiglia la dimensione del “saper essere”), avrebbe schierato. Un allenatore che non stava tanto simpatico agli “julianisti” perché iniziava a far percepire che il capitano si stava avviando alla conclusione della carriera.
La percezione era giusta poiché, a fine campionato, Di Marzio appoggiò (o forse sollecitò) il presidente Ferlaino nella decisione di proporre al capitano di tante battaglie un ruolo da dirigente come responsabile del settore giovanile. Dopo sedici anni di assoluta lealtà, impegno e fedeltà, Juliano si sentì tradito e, con la lista datagli gratuitamente, si trovò una squadra. Andò al Bologna del suo mentore Pesaola per giocare ancora un altro anno. Il Bologna si salvò e Di Marzio, nel campionato successivo, venne esonerato dopo due partite di campionato. La vendetta era stata consumata.
Ma ritorniamo a quella partita.
Ingresso allo stadio con largo anticipo e poi… calcio di inizio. La partita scorre noiosa fino al 75’ quando Garlaschelli porta in vantaggio la Lazio. È finita, pensiamo in tribuna. E come spesso avveniva in quegli anni, i primi fischi sono per Juliano. I napoletani sono sanfedisti nell’anima e spesso tradiscono i capipopolo(oggi si chiamano leader). Ma non è finita. Juliano abbandona i settori difensivi per tentare il colpo grosso. C’è un calcio d’angolo. Valente butta al centro un pallone che Wilson respinge di testa. Valente riprova, ma Savoldi si impappina e non riesce a tirare. Nuova respinta e nuovo rilancio di Valente. Juliano entra e da terra, a scivolone, devia in rete fuori dalla portata di Garella (si, proprio lui, il portierone del primo scudetto). È l’1-1. Mancano appena due minuti alla fine. Per la Lazio non c’è più tempo per rimediare. Fanno festa i ventimila tifosi napoletani giunti a Roma con ogni mezzo. Il pari li accontenta. Ma non Juliano che corre verso la panchina e scalcia il secchio d’acqua del massaggiatore verso la tribuna, quasi a sottolineare quanto ribadito poi da mio padre: «… chest v’ammeritate!».
Juliano divenne il direttore sportivo della società che portò a Napoli prima Krol (terzo posto con una squadra modesta) e poi, a seguito di un breve periodo di riposo per l’ennesimo tradimento di Ferlaino (rinnovo del contratto all’allenatore Marchesi a sua insaputa), dopo 40 giorni di snervanti trattative, Maradona!
Era il preludio al suo sogno: vincere, seppure non da giocatore, il primo scudetto con il Napoli. Era, per noi “julianisti” convinti, il giusto finale di una sceneggiatura spesso drammatica. Così non fu però perché l’ennesimo divorzio da Ferlaino si consumò due anni prima del 10 maggio 1987. A ogni modo un sogno l’ho realizzato vent’anni dopo. Ero, all’epoca, il direttore commerciale di una importante banca del paese e presso una filiale dell’istituto di credito aveva il suo rapporto il signor Antonio Juliano. Lo venni a sapere quando il direttore mi telefonò per dirmi, conoscendo la mia passione per il calcio ma non ancora la venerazione per il suo cliente, che voleva presentarmi appunto “il capitano”.
Quella filiale divenne, in poco tempo, la più visitata e seguita dal sottoscritto. Non certo per il business. Potete immaginare quante volte ho incontrato il mio idolo. Ovviamente senza mai parlare di affari ma solo ed esclusivamente di calcio. Più gli raccontavo aneddoti e curiosità dello “julianismo” della mia famiglia, più Antonio si lasciava andare a ricordi e flashback creando un vortice di emozioni e di stima. Poi un giorno, con tono perentorio, mi disse: «… se non mi porti a conoscere tuo padre, non parlo più di calcio con te! Dobbiamo passare una giornata insieme e per lui deve essere una sorpresa…».
Organizzai immediatamente l’incontro. È stato uno dei giorni più belli del mio essere tifoso e figlio. Forse la foto con dedica sulla copertina di un libro sulla storia del Napoli rende più di ogni mio racconto. Come ha scritto Osvaldo Soriano: «Sono così le storie del calcio: risate e pianti, pene ed esaltazioni». Quel giorno, un ottantenne ha pianto di gioia.
