Jannik, beata gioventù
A Montecarlo, tre ore di spettacolo hanno visto l’italiano Jannik Sinner sfiorare l’impresa contro il numero due del mondo Zverev, arrendendosi solamente al tie-break.
Tre ore di tale intensità emotiva, per chi ama lo sport, le regala solo lo scudetto conquistato dalla squadra del cuore, una figlia che va sposa, un campo fiorito di papaveri rossi all’esordio della primavera. Tre ore e una manciata di minuti laureano winner morale di un epico match di tennis il ventunenne Jannik, che non ha un nome italianissimo e neppure il cognome Sinner, dato che non sorprende perché appartiene a una bella famiglia della Val Pusteria, Alto Adige, Tirolo orientale. Jannik si esprime in italiano corretto con lievi inflessioni teutoniche e catturato in tenera età dal fascino di discese libere e slalom, pane quotidiano delle Dolomiti, ha praticato lo sport della neve. Prima di toccare la vetta di un metro e ottantotto di altezza ha risposto al richiamo forte del tennis, che ammette al gotha dell’eccellenza giocatori dall’uno e ottanta in su. La saggia decisione si è avvalsa del superbo lavoro di un team di alta qualità.
Esaurita la narrazione di Jannik, tipo carta d’identità, interviene l’attualità, la cronaca, i perché delle tre ore davanti al televisore che ha trasmesso il match dei quarti di finale a Montecarlo, disputato dal mitico tedesco-russo Zverev, numero 3 del mondo, numero due del torneo e dall’astro nascente Sinner. Interessante, di là dalle molte e ovvie ragioni per osservare il gioco è stato capire se anche nello sport dei “racchettari” è possibile che a dispetto della possanza di Golia (Zverev) e dell’impatto con l’apparenza inferiorità psicofisica di Davide, si può replicare la leggenda del gigante sconfitto. Prima risposta, di slancio: sì, se nel cast di personaggi e interpreti della sfida, Davide Jannik esibisce il suo fantastico repertorio di attributi determinanti: cuore, anima, testa, resistenza alle fatiche di una maratona che tende ad azzerare ogni energia, soprattutto mentale.
Interessava, oltre a veder sfiorare l’impresa della vittoria al tie-break del terzo e decisivo set, cogliere la gamma di comunicazioni non verbali del tennista destinato probabilmente a scalare posizione dopo posizione la vetta del ranking mondiale e che una serie di successi in giro per il mondo lo ha già collocato al posto numero nove. L’inizio del confronto ha proposto evidenti differenze non solo anagrafiche dei due tennisti. Zverev, 25 anni, ha da poco completato la costruzione della maturità atletica e tecnica. All’età di Sinner muscoli ed esperienza erano molti simili alle caratteristiche del tedesco. Tutto lascia suppore che il ragazzo di San Candido le acquisirà presto.
Nelle fasi iniziali del match Zverev è andato avanti nel punteggio senza grande impegno, ma ha sottovalutato la riserva di doti di Jannik, che dietro l’aria di bravo ragazzo, lo sguardo in cerbiatto, la gentilezza dei modi, nasconde quello che gli esperti ritengono qualità indispensabile per essere winner di alto livello e cioè la capacità di concentrazione, di soffrire (Sinner gioca da molti giorni con una vescica dolorosa al piede), una giusta dose di creatività, di grinta, di tenacia. Jannik, game dopo game ha rimontato lo svantaggio iniziale e come un motore che ha concluso il rodaggio, ha chiuso il set con il clamoroso punteggio di 7 a 5 a suo favore. Come spesso accade, per inesperienza, Sinner ha messo la sordina alla competitività e al marpione tedesco non è parso vero di imporsi con un netto 6-3 nel set successivo. Qualunque osservatore dotato di competenza specifica avrebbe scommesso su un terzo e decisivo set in discesa per Zverev e avrebbe clamorosamente fallito la previsione. Il set è andato avanti in alternante prevalenza dell’uno e dell’altro e Jannik, scovando chissà dove residui di energia, ha sfiorato il successo al tie-break, mancato per la miseria di un paio di quindici girati a favore del tedesco. Cosa resta di questa sfida: certo, nello sport non esiste il “vincitore morale”, ma Sinner avrebbe meritato il titolo a pieni voti.
Sullo sfondo, il volto imperscrutabile di Jannik, nei momenti di dominio del match e in quelli deludenti, l’esultanza contenuta a conclusione di fantastici colpi che in futuro gli frutteranno imbattibilità, il timido incitamento con le due braccia che invitano a tifare, i cenni minimi di sconcerto con il capo abbassato per un’azione infelice, il lieve dondolare della racchetta per sottolineare una volée vincente, un lungo linea imprendibile. Mai una smorfia, un’espressione di rabbia, di contestazione, di rammarico per momenti di iella. Il sospetto è che il gelo della sua terra di origine lo porti dentro di sé e forse non è un male, anche se il percorso per la scalata al ranking ATP gli chiederà anche momenti di “cattiveria” passionale.