Napoli meritava un dieci
La regina nello scacchiere, il sacro nel profano, l'idolo dei tifosi: questo è il dieci. E Napoli ne avrebbe meritato uno.
© “DYBALA” – FOTO MOSCA
Come iniziare un racconto sul numero dieci? Ardua come sfida. Una trama del genere potrebbe svilupparla, forse, soltanto un vero numero dieci, alla sua maniera: dribblando il problema. Ebbene, anche se per poco, l’onore di vestire la maglia più iconica della storia sportiva è stato riconosciuto anche al sottoscritto. C’è troppo e troppo poco da dire. È il numero perfetto, e se lo diceva Pitagora, nessuno può confutare. Rappresentava, nel periodo delle elementari, medie e liceo il massimo ottenibile da compiti, verifiche e interrogazioni. È il risultato tra l’inizio di tutto, l’uno, e il nulla, lo zero. La loro somma, poi, simboleggia l’eterno ricominciare.
E dopo aver dribblato attraverso una finta di corpo, magari senza neanche toccare il pallone, cos’è che fa il numero dieci? Difficile da dire, può continuare a scartare quanto imbucare, è imprevedibile. Spesso lo è anche per se stesso. Sarà solo il tempo a sapere cosa sarà in grado di fare, nel frattempo lui avanza, poi si vedrà. La maglia, larga, nel pantaloncino – almeno una volta era così – si presta all’energia del vento. Seguendo la sua direzione. Dietro di lui, tutti gli altri. Ecco, immedesimiamoci in questa scena. Il problema non è ancora superato, non è stato raccontato sostanzialmente nulla, un semplice dribbling non vuol dire aver segnato, anche se, se eseguito da certi personaggi, tutti i tifosi sugli spalti si alzano in piedi.
Scritta l’introduzione, superato il primo avversario, c’è difronte la scelta. Dai, continuiamo a scartare. Come i veri dieci fanno. Iniziamo a raccontare. Dobbiamo ad un vero e proprio pioniere della preparazione atletica professionale l’idea di identificare i calciatori in campo attraverso dei numeri, questo è Herbert Chapman, storico allenatore dell’Arsenal a cavallo tra gli anni venti e gli anni trenta. È un intuizione brillante. La cosa piacque a tutti, anche alla Football Association che, a pochi anni di distanza dall’invenzione, rese obbligatoria l’identificazione del calciatore attraverso il numero di maglia. Okay, il problema adesso è dare un criterio in base al quale questi benedetti numeri vanno assegnati. L’inizio fu semplice, ad ogni ruolo corrisponde un numero. Senonché, dopo qualche tempo, iniziano i primi trucchetti da parte degli allenatori che, per confondere la rigidità dei colleghi basata su numero=ruolo, iniziano a cambiare le carte in tavola. Dal 1958 in poi, tutti sappiamo la storia.
Un altro dribbling, è saltato il banco. Stavolta con un doppio passo dalle brasiliane movenze. Siamo nel bel mezzo della narrazione. Il dieci, salvo la sua natura, è unico. E ognuno è dieci a suo modo. Non risponde a delle caratteristiche, e non ci si può nascondere dietro il “deve avere i piedi buoni” o “ha visione di gioco e intuito”. Indossare quella maglia è questione di identità. Quel numero è come un indumento che non viene lavato da anni: cammina per conto suo. Tu devi riempirlo. Anche quel Marcantonio del numero nove deve sottostare alla figura epica del numero dieci. Cos’è il dieci? Il genio, e cos’è il genio? Il numero dieci. Una reale personificazione della divinità romana Giano, con due volti, poiché può guardare il futuro e il passato, ma anche perché, essendo il dio della porta, può guardare sia all’interno che all’esterno. E, tra l’altro, per vedere cinque sviluppi di gioco dove gli altri ne vedono due, hai bisogno per forza di un paio di occhi in più.
Siamo difronte il portiere avversario: dopo aver dato vita ad una grande azione si presenta l’ostacolo maggiormente significativo, gonfiare la rete. Per noi, spiegare l’importanza di un numero dieci all’interno della squadra. Per ogni team è indispensabile un numero dieci. Quasi come una religione, come un Cristo o un Maometto, ogni squadra deve giovare della sua mitica presenza. Prendendo in prestito una citazione passata alla storia “da grandi poteri, derivano grandi responsabilità“. Infatti quella maglia ti carica di responsabilità, ma tu le vuoi, vivi per avere delle responsabilità. Quando mancheranno pochi minuti ed il risultato sarà tutto tranne che certo, ti cercheranno i compagni perché, per loro, la sfera sarà in cassaforte. Sei l’anima della squadra, il condottiero, estrarrai la tua squadra dalle sabbie mobili. Sarai costantemente sotto pressione, il bello è che lo sarai senza saperlo, perché sei freddo, leggero, sicuro. Gli stadi si riempiranno grazie alla tua presenza e sono pronti ad urlare a gran voce il tuo nome. Sei il loro idolo.
L’estremo difensore è stato scartato; culo per terra, come Marchegiani contro Ronaldo nel 1998, c’è solo da appoggiare il pallone in rete con un tocco leggero. In questo caso, identificare il dieci che farebbe al caso del Napoli, ma al contempo che possa concretamente operare in queste vesti. In altre parole, un obiettivo realistico. Questo era Paulo Dybala.
È gol. Lo stadio è in delirio.
In modo più o meno sintetico, non troppo ortodosso, è stato descritto un numero dieci. Ed è stato fatto un nome che racchiude nel suo piede l’essenza dell’essere dieci: Dybala. Lui è stato il dieci accostato al Napoli, è lui la causa delle notti in bianco passate a pensare “viene o non viene?”. Il calciatore argentino oltre a poter diventare, per caratteristiche, il primo dieci dell’era De Laurentiis, sarebbe diventato anche colui il avrebbe incendiato una tifoseria che sembra essere stata domata. Sarebbe stato come una regina nello scacchiere, libero di muoversi e spaziare in qualsiasi parte del campo. Adesso la Joya è un nuovo calciatore della Roma, e Napoli continua a essere priva della apicale figura del calcio.
Negli altri anni, la tecnica di alcuni calciatori ha indotto i tifosi a pensare che uno pseudo dieci ci fosse, ma non aveva determinate caratteristiche, anzi una, l’unicità. L’amore verso altri ha adombrato la mancanza del dieci, senza accorgersi che, in realtà, si stesse giocando con un calciatore in meno. Il più importante. E, evidentemente, a qualcuno va bene così.