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Kvaratskhelia è poesia in un calcio fatto di prosa

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©️ “KVARATSKHELIA” – FOTO MOSCA

Come si fa a capire se un calciatore è destinato a scrivere la storia del calcio? Guardando ai suoi numeri, certo, alle capacità di essere determinante nei match di cartello. Si, ma, soprattuto, lo si intuisce quando gli spiriti degli amanti del football intraprendono una corsa affannosa al paragone. 

Nel bagaglio di Kvaratskhelia c’è tutto questo. Il georgiano non è soltanto, infatti, il giocatore del Napoli che attualmente ha partecipato attivamente a più reti – con sette gol, sei assist e tre rigori procurati – né, tantomeno, unicamente l’ala che ha dominato Lazio, Liverpool, Ajax e Milan. Khvicha è la ragione del ritorno romantico degli appassionati alla memoria individuale e collettiva, alla ricerca di un termine, di un nome che abbia creato, allo stesso tempo, gioia ed epica.

Si, perché Kvaratskhelia è tante cose, tra cui un gancio al passato. In un calcio moderno fatto di prosa, atletismo, crudezza e sistemi, lui è poesia, imprevedibilità, passione ed estro. È un giocatore di un altro tempo, di uno sport che non restava confinato negli stadi, o negli articoli di un giornale, ma prendeva i suoi primi respiri nelle basse categorie, nei campetti degli oratori, dove vigeva la sola regola del pallone. Un calcio primordiale, pasoliniano, fatto di corpi, movimenti, sregolatezza, amore solo per il gioco.

Amore per la sfera. Quella sfera che Kvaratskhelia domina, governa, accarezza, bacia, serve, maltratta, e, a volte, non passa come fosse sua. Come fosse venuto dalle origini di quello sport, quando si giocava prima per sé che per la squadra e non viceversa, prima per divertimento che per il risultato, prima come individuo che come numero di un collettivo robotizzato allo spartito.

E, allora, si che Repice, dall’alto della sua cultura calcistica, non deve mica scusarsi se affibbia al georgiano una somiglianza con George Best. Quello che se nato brutto avrebbe oscurato il nome di Pelè, a suo dire. Il poeta del gol, semplicemente, per gli altri. Del nordirlandese, Kvaratskhelia ha i movimenti, il ruolo, la postura, l’estetica, quei calzettoni abbassati, e, poi, soprattuto l’ossessione e l’inclinazione all’uno contro uno, fine a se stesso o costruttivo. Il dribbling inteso come uno scarto alle convenzioni, una linguaccia al conformismo degli schemi, e una preghiera alla libertà creativa. 

Kvaratskhelia, o Kvaradona per i suoi connazionali, come Best, come Dinho, come Henry, Del Piero o come, per chi scrive, il fu Gigi Meroni. La farfalla granata, ala destra che ricordava i frombolieri brasiliani (cit. Pastorin), che scartava gli avversari in campo come birilli con finte magistrali, per rivendicare la sua arte e assecondarla. Calciatori non lobotomizzati, non castrati della fantasia, che permette in ogni epoca di essere avanguardia estetica ed entusiasmare le folle. Ciò che era Gigi Meroni, o Best, ciò che è Kvara: un artista prestato al calcio, un edonista generoso. 

Parliamo di geni. Il dio della natura umana, per Orazio, il daimon che ci guida, l’aspirazione al gesto eccentrico e straordinario. Parliamo del calcio perché, come scriveva Caminiti, il calcio non può esimersi di essere sempre fatto atletico, ma non potrà mai somigliare al basket, e perciò è – ed aggiungiamo soprattuto – anche estro, invenzione, improvvisazione. Hanno tentato di uniformarlo con le statistiche, spettacolarizzarlo con la moltiplicazione dei calendari. Ma il pallone non è una scienza e vive solo di chi sa giocarlo incoscientemente e può ancora – sa ancora – “creare” felicità nei fanciulli, allegria e momenti poetici: i tacchi, i doppi passi, gli elastici, le incursioni, i no look, e, poi, i gol. 

“Ogni goal è sempre un’invenzione, è sempre una sovversione del codice: ogni goal è ineluttabilità, folgorazione, stupore, irreversibilità. Proprio come la parola poetica.”
Pasolini 

Ecco spiegato tutto questo stupore per Kvaratskhelia. A tutto questo non eravamo più abituati. Ci ha fatto uscire fuori dal codice, dai binari. Su una strada che porterà in avanti, ma che ci ha costretto a guardare all’indietro chiedendoci dove avevamo già visto quelle cose e chi era in grado di farci provare quelle emozioni. Kvaratskhelia, parafrasando Galeano, è il buon calcio che si manifesta, e rendendo grazie per il miracolo, a tutti noi non importa un fico secco di quale maglia indossa o da che Paese arriva. 

Importa solo guardarlo ancora mentre compone le sue poesie, atti di pace che ci riconciliano con il calcio e ci permettono ancora di amarlo.

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