Patrizio Oliva: dall’Oro al progetto Milleculure

Le parole di Patrizio Oliva, dalla grande carriera ricca di riconoscimenti al progetto in ambito sociale del centro Milleculure.

Articolo di Ruben Zaccaria19/04/2022

Tra le figure sportive di spicco nate all’ombra del Vesuvio non si può non citare Patrizio Oliva. Oltre alla celebre Medaglia d’Oro vinta alle Olimpiadi di Mosca nel 1980, per la quale è stato inoltre premiato come miglior pugile della competizione, l’atleta napoletano è stato Campione Europeo nella categoria superleggeri e welter, rispettivamente nel 1983 e nel 1990. Oliva, è stato inoltre Campione del Mondo WBA nei superleggeri nel 1986.

Dopo il suo ritiro, ha guidato la Nazionale Olimpica ai Giochi di Atlanta 1996 e Sidney 2000 come commissario tecnico. Ad oggi, e da cinque anni a questa parte, l’ex pugile gestisce il centro Milleculure, in grado di offrire ben dieci discipline olimpiche diverse, nonché una sala fitness e diversi corsi di attività aerobica. L’obiettivo dell’associazione è quello di porsi come strumento sociale, permettendo di fare aggregazione e svolgere attività sportiva anche a chi non ne ha possibilità. Ai nostri microfoni, Oliva ha rilasciato un’intervista, parlando della sua carriera e della sua attività sociale, che gli ha inoltre permesso di vincere la scorsa estate il Premio Internazionale Fair Play Menarini per la categoria “sport e vita”.

Come è nato il progetto Milleculure?

Il progetto parte da Diego Occhiuzzi. Dopo le Olimpiadi di Londra, dove lui prese l’argento nella scherma, decise di voler fare qualcosa per i ragazzi di Napoli e quindi chiamò un po’ di amici sportivi al fine di creare questa associazione. Eravamo io, Rosolino, i Porzio, Maddaloni e decidemmo di scegliere come nome “Milleculure”. Siamo stati insieme fin quando abbiamo aperto questa palestra, perché il sindaco diede a Diego questa palestra ma dopo gliela tolse perché molte società si ribellarono, e quindi si fece un bando. Facemmo il bando: tutti volevano questa palestra, ma quando seppero quello che si doveva spendere si tirarono indietro e partecipammo solo noi. E ci siamo presi un onere perché questa palestra se ne cadeva a pezzi, era una topaia.

Siamo rimasti in società soltanto io e Diego e gestiamo da 5 anni questa palestra. Tutto quello che si può vedere qui è stato fatto con i soldi nostri, anche le opere murarie, ristrutturazioni, tutte fatte noi. Perché eravamo consapevoli che il Comune non potesse sostenere queste spese. Così abbiamo preservato un bene pubblico. Cosa che non fanno altre società. Stiamo facendo una bella realtà. Il progetto è nato nel 2012 e quindi lo abbiamo portato avanti. Noi qui dentro, in questa palestra, facciamo opera sociale. Tutte le persone che appartengono a famiglie bisognose qua non pagano. Quindi molti bambini, e ne sono tanti. E poi abbiamo messo una retta molto bassa per permettere a tutte le persone del quartiere Rione Traiano di fare sport. Perché noi vogliamo che tutti facciano sport. Soprattutto l’aggregazione per i bambini è importante.

Può essere anche un’opportunità per i ragazzi che crescono in quartieri difficili?

Sì, perché lo sport va portato proprio nelle zone difficili, proprio per cercare di togliere i ragazzi dalla strada. Quindi un ragazzo che si appassiona a una disciplina sportiva vive con i valori che trasmette lo sport e cambia sicuramente. Il Rione Traiano è un quartiere dalla nomea piccantina. Però poi devo dire la verità abbiamo tutti ragazzi per bene. Qualche ragazzo lo abbiamo messo sulla retta via. Il nostro obiettivo è quello di accogliere quanti più ragazzi possibile e farli dedicare a uno sport, per trasmettergli i valori dello sport e renderli dei cittadini migliori. Se nasce il campione siamo contenti, se non nasce il campione non è il nostro obiettivo primario. Il nostro obiettivo primario è permettere a tutti di fare sport perché lo sport non deve essere visto come antagonistico, lo sport deve essere visto come momento di prevenzione medica, strumento sociale.

In estate, hai ricevuto il Premio Internazionale Fair Play Menarini per la categoria sport e vita”. Cosa ha portato a far ricadere su di te la scelta del vincitore?

Queste giurie si informano sugli atleti da premiare e sapevano che comunque io oltre ad essere stato un grande campione, sono l’unico che si prodiga molto per il sociale. Sapendo quello che facciamo nella palestra, il mio “recarmi” nelle carceri minorili, il “sociale” che faccio… hanno ritenuto opportuno premiarmi. Lo sport ci insegna che il fairplay è fondamentale. Nell’Iliade c’è una citazione di due atleti di pugilato che si affrontano, Eurialo ed Epeo. Quando Eurialo va K.O. Epeo gli dà la mano e lo alza. Lo sport fisico ma rende le persone più umane. Ai ragazzi vorrei trasmettere tutti i valori che trasmette lo sport: rispetto delle regole, rispetto dell’avversario, la solidarietà, lo spirito di gruppo, di appartenenza. Sono tutti quei valori che sei poi li tramuti in senso civico non sono altro che rispetto delle leggi, dell’ambiente e della persona.

Facendo un salto temporale, nel 1980 hai vinto la Medaglia d’Oro alle Olimpiadi. Puoi raccontarci il percorso che ti ha portato alla vittoria?

Nasce dalla mia attività già giovanile. Mi sono dedicato al pugilato da sempre e l’ho sempre fatto con la mentalità del professionista. Campione Italiano tre volte, Campione d’Europa e poi andai a Mosca dove vinsi la Medaglia d’Oro e fui premiato come Miglior Pugile dei Giochi Olimpici. Una sensazione abbastanza strana perché erano le Olimpiadi della guerra fredda quindi ci fu una defezione di tutte le Nazioni che erano alleate all’America. Non parteciparono alle Olimpiadi. Mentre l’Italia fece una via di mezzo, non partecipò come Italia ma come CIO internazionale. Non avemmo l’inno italiano, ci fu l’inno del CIO con la bandiera a cinque cerchi. E fu abbastanza strano, però la sensazione di vincere alle Olimpiadi, di vivere il villaggio, con tanti atleti in gioco…

Il pugilato fu uno sport difficilissimo. Fu difficilissimo perché allora le Nazioni più forti erano quelle dell’est, tutte presenti. Mancavano solo gli Stati Uniti che erano la terza nazione più forte dopo Cuba e Russia. La finale l’ho fatta con un pugile di casa, dell’Unione Sovietica.

Come mai ti chiamavano lo Sparviero”?

Franco Esposito mi diede questo soprannome, che è stato un grande giornalista, vincitore del Premio Bancarella, prima del Mattino poi dopo del Corriere dello Sport. È stato anche insegnante di pugilato. Lui mi paragonava ad uno sparviero perché lo sparviero è un rapace esile, elegante, però appena la preda fa un errore… Io ero uguale, sul ring ero elegante, ero esile ma appena l’avversario faceva una mossa sbagliata, lo punivo.

Come è cambiato il pugilato da quando lo praticavi ad oggi?

Nel dilettantismo hanno fatto un sacco di cambiamenti ma poi sono tornati indietro. La Federazione Mondiale non ha le idee molto chiare. Fa delle regole, poi le disattende, poi ritorna. Nel professionistico sono aumentate le sigle/federazioni mondiali: prima quando combattevi ce ne erano solo due e prima di me solo una. Adesso ne sono sei, sette, otto. E quindi oggi il Campione del Mondo ha perso valore.

Tu non puoi dire sono campione del mondo, ce ne sono sette nella stessa categoria. Ci sono sei, sette campioni del mondo perché ci sono sei, sette federazioni. Invece prima aveva un valore diverso. Tutti i più forti convogliavano in una federazione. Invece adesso ti vai a scegliere la sigla più facile. Ha perso di credibilità il titolo mondiale. I campioni sono campioni lo stesso però la sigla vuol dire tanto.

Un aneddoto della tua carriera che ricordi in particolare?

L’avversario che incontrai in Finale alle Olimpiadi l’ho incontrato un anno prima ai Campionati Europei a Colonia. Vinsi proprio nettamente e lo diceva il pubblico, sospese il campionato per più di mezz’ora per protesta. Non poteva accettare quell’ingiustizia che avevo subito. L’inno sovietico per i fischi non si sentì. E poi il destino volle che io un anno e mezzo dopo lo incontrai proprio in finale.

Poteva succedere che ci incontrassimo nel girone ed uno dei due sarebbe uscito. Invece no, ci siamo ritrovati in finale quella sera, a casa sua… Uno avrebbe potuto pensare: “Figurati, mi hanno dato perdente a Colonia, in campo neutro, figuriamoci a casa sua qui nella finale olimpica. E quando vinco”. Invece io ho creduto di vincere, ho creduto fino alla fine e fui premiato. E tante volte io dico scherzando che uno dei film di Rocky l’hanno copiato da me, perché l’ho fatto nell’80, lui nell’84/85.