Esclusiva – Savoldi: “Napoli arricchimento della mia cultura”
Giuseppe Savoldi ha rilasciato un'intervista ai nostri microfoni parlando della sua esperienza di calcio e vita nella città di Napoli, fino ad arrivare al presente.
©️ “SAVOLDI” – FOTO MOSCA
Nato a Gorlago il 21 gennaio 1947, Giuseppe Savoldi si prende di diritto un posto tra gli attaccanti più forti della storia calcistica napoletana, che ha tramandato il suo nome fino all’odierna generazione. 77 reti in 162 partite nei quattro anni in maglia azzurra, con la quale ha vinto la seconda Coppa Italia della storia del club nel 1976. Capocannoniere di tale competizione per tre volte – di cui una indossando i colori partenopei – e della Serie A nel ’73, Savoldi passò al Napoli nell’estate del 1975 per la storica cifra di due miliardi di lire (comprendendo i cartellini di Clerici e Rampanti); all’epoca, la più alta spesa per il trasferimento di un giocatore. Ai nostri microfoni, l’ex attaccante ha rilasciato un’intervista parlando della sua esperienza di calcio e vita nella città di Napoli, fino ad arrivare al presente.
Quattro anni a Napoli: che esperienza è stata dal punto di vista professionale e personale?
“Andando a Napoli ho fatto un salto di qualità sia sotto l’aspetto calcistico, sia sotto l’aspetto della cultura, dell’esperienza… non so come definirlo. Mi sono arricchito, mi son fatto un’esperienza incredibile, una cosa eccezionale, perché Napoli non ti può dare il niente, ti può dare grandi cose, delle cose eccezionali, perché è ricca di tutto. È una città che ha storia sotto l’aspetto culturale, sotto quello del vivere le cose di tutti i giorni, soprattutto il calcio.
Io ero arrivato per vincere lo scudetto. Venivo dopo l’anno in cui il Napoli era arrivato secondo dietro la Juventus per quegli episodi particolari che sappiamo tutti. E quindi il Napoli pensava, giustamente o no, questo non lo posso dire io, di prendere un giocatore che garantiva annualmente un certo numero di goal per poter vincere lo scudetto. Non è stato proprio così e questo mi è dispiaciuto molto, perché non son riuscito a realizzare i sogni di Ferlaino innanzitutto, della squadra di Vinicio e soprattutto della tifoseria, però nel calcio succede. Ho contribuito alla vittoria della Coppa Italia, che ha portato alla squadra il trofeo e anche prestigio. Mi dispiace tantissimo per lo scudetto”.
Come hai vissuto l’etichetta “Mister due miliardi”?
“Io sono arrivato con un grande senso di responsabilità perché il Napoli mi ha pagato quella cifra e non potevo deludere. E quindi dovevo dare il meglio di me stesso e questo mi ha dato una carica eccezionale”.
Arrivi a Napoli con Vinicio ad attenderti in panchina, quanto è stata di impatto nel calcio italiano la sua presenza rivoluzionaria e come è stato lavorare con lui?
“Vinicio, come hai detto giustamente, è stato un rivoluzionario perché è uno tra quelli che ha portato in Italia il calcio olandese. Dal Bologna al Napoli c’è stato veramente un cambiamento nel mio modo di intendere il calcio. Però quello che mi ha lasciato ‘un po’ così’ è il non essere riuscito a raggiungere questo obiettivo che Ferlaino, la società, Vinicio e la squadra si erano preposti di poter raggiungere. Vinicio diceva ‘mi dispiace, non siamo stati quelli dell’anno scorso, quelli che dovevamo essere in questo campionato’.
Squadra a fine ciclo? Effettivamente è stato un po’ così. Insomma, i giocatori avevano dato tutto, in poche parole quello che avevano da dare l’hanno dato, quindi nessun rimprovero, sia ben chiaro, però è un fatto generazionale che a un certo punto non solo il singolo giocatore, ma anche la squadra, viene meno non solo fisicamente, ma anche a livello psicologico. Mentalmente quindi quella squadra è arrivata scarica per raggiungere quegli obiettivi.
Adesso io non voglio mica togliermi le mie colpe, sia ben chiaro (ride, ndr), però siamo arrivati a non avere più quella carica agonistica, quella fisicità, che servivano per raggiungere quegli obiettivi. Difatti dopo due anni Ferlaino ha cambiato totalmente squadra, sono andati via un po’ tutti”.
Due anni dopo la vittoria della Coppa Italia del ’76, avete raggiunto un’altra finale nell’edizione che ti ha visto protagonista da capocannoniere con in panchina Gianni Di Marzio, venuto purtroppo a mancare nel mese di gennaio. Puoi raccontarci l’esperienza con Di Marzio?
“Racconto una cosa, così faccio capire tutto quello che c’era con Di Marzio. Io agli allenatori, molto rispettoso, ho sempre dato del lei, c’era questo tipo di rapporto. Di Marzio, una sera, mi ha invitato improvvisamente a casa sua a cena. Eravamo solo io, mia moglie e lui con sua moglie. Una cosa del genere non mi era mai capitata nella mia esperienza calcistica. In quell’occasione chiaramente mi ha chiesto di dargli del tu. Sono diventato, tra virgolette, amico del mio allenatore. Lui mi ha responsabilizzato al punto di essere suo amico, cosa che non mi è mai capitata”.
Passando a tempi più recenti, l’era De Laurentiis ha visto due giocatori straordinari come Cavani e Higuaín. Condividendo con loro il ruolo di attaccante, chi ti ha impressionato di più tra i due?
“Cavani sicuramente, Higuaín sicuramente, però ci sono stati dei giocatori precedenti che mi hanno fatto sentire in loro, perché hanno potuto dare quello che io non sono riuscito a dare – io personalmente o quella squadra – raggiungendo gli obiettivi del Napoli: Careca, Giordano, sicuramente io mi rifaccio a quelli. Parlando di Cavani e di Higuaín, dico Cavani, che anche in quegli anni lì con Mazzarri ha saputo trovare e dare soprattutto un’identità a quella squadra.
Higuaín con quella squadra lì non poteva non fare bene. Visto che sono stato non solo giocatore ma ho fatto l’allenatore a livello di Serie C per più di dieci anni, è anche un discorso di atteggiamento, di comportamento, di relazione con tutta la squadra.
Di nuovo, da attaccante ad attaccante: una tua analisi su Osimhen?
“Allora, Osimhen fa reparto da solo, è bravo a fare tutto. Adesso ha imparato a tenere palla, prima prendeva delle gran botte e non riusciva a difendersi. Ha imparato a farlo, per far salire la squadra. Poi ha una grande velocità, ha senso del goal, ha un’elevazione che è stratosferica, cattiveria agonistica, e quindi per me questo è un giocatore completo“.
Dei 14 goal in campionato, Osimhen ne ha segnati ben 7 di testa, con pochi palloni ricevuti sui piedi da poter scaricare in rete. Al Napoli manca un rifinitore?
“Dipende dalle situazioni: io ho visto che Spalletti sa sfruttare al massimo i giocatori che ha disposizione, se poi c’è una partita che ha bisogno di quel trequartista, di quel rifinitore, di quel regista, è chiaro che manca al Napoli”.
In conclusione, tornando alla sfera personale, se dovessi scegliere un momento significativo della tua esperienza a Napoli, quale ci racconteresti?
“Non è che c’è stato un momento, c’è stato un periodo, io ci ho vissuto 4 anni. Napoli sa capire quali sono i momenti belli in cui esserci, eccitarsi, e capire anche quali sono i momenti in cui purtroppo le cose non vanno bene. E quando sono tornato a Bologna tutti avevano capito che ormai l’idillio era andato male. È una consapevolezza. L’esperienza che ho avuto a Napoli mi è servita. I miei 4 anni, quello che ho vissuto a Napoli, sono veramente un fatto di cultura, mi hanno lasciato qualcosa. Napoli è stata un arricchimento della mia cultura“.