Ricordando Gianni Mura e Giuseppe Pistilli, due giganti del giornalismo
Il primo giorno di primavera non sempre ha il tocco della spensieratezza. Il 21 marzo 2018 ci lasciava Giuseppe Pistilli. Il 21 marzo 2020, Gianni Mura. Due giganti del giornalismo.

Il primo giorno di primavera non sempre ha il tocco della spensieratezza. Il 21 marzo 2018 ci lasciava Giuseppe Pistilli. Il 21 marzo 2020, Gianni Mura. Due giganti del giornalismo. Molti ragazzi del secolo scorso sono cresciuti leggendoli. E, per questo, hanno imparato ad amare la vita che narravano. Mi permettano, i ragazzi di questo secolo – che l’invasione russa in Ucraina ha reso così triste, solitario y social – di raccontarli. Il passato di solito fa sbadigliare. Non nel nostro caso, almeno. Fidatevi.
Mura, classe 1945, è il mio «fluidificante ad honorem», visto il repertorio che sfoggiava. Nello sport e nella musica, con il ciclismo del Tour e le agonie di Marco Pantani nel cuore. In carriera, ha saputo onorare e ricoprire molti ruoli. Un jolly dal talento smisurato e riflessivo. Custode del commissario Maigret e dei suoi scorci parigini, place des Vosges su tutti, amante della buona cucina e della belle lettere. Cacciava e trattava i puntini di sospensione alla stregua di biechi simulatori. Autore di libri, un periscopio sul mondo, sempre dalla parti di Emergency (Gino Strada) e non degli emergenti a rischio zero.
Pistilli, classe 1939, la stessa del Trap, era di prosa rotonda, graffiante, erudita. Detestava «centrale»: preferiva stopper. Nei secoli fedele al «Corriere dello Sport-Stadio», con la carica di vice direttore. Sapeva adattarsi, sapeva soffrire: e non solo per metafora. Un brutto male gli impedì di scalare la direzione, era il 1986, e la chemioterapia di allora – mi confessò – era come il napalm. Quanti stadi aperti, con Pist. E le telefonate: piccole lezioni. Se azzeccavo un pronostico, e mendicavo coccole, mi fulminava così: «Ti ho detto bravo, non ti basta? Vuoi la ola?».
Gianni ha sempre considerato la parola un ponte e non un muro. Il suo stile trasmetteva una gioia schietta, ha lasciato il vuoto che i fuoriclasse assoluti – e lui lo era – scavano nella storia del mestiere e, a maggior ragione, nella cronaca di noi mestieranti.
Gianni è stato un maestro. E come tale, d’improbabile emulazione. Ve lo riassumo in un concetto, il concetto di Albert Camus, premio Nobel per la letteratura nel 1957: «Chi scrive in modo chiaro ha lettori, chi scrive in modo oscuro ha commentatori». Ecco: Gianni incuriosiva. Appassionava. Si poteva non essere d’accordo, non si poteva non ammirarlo. Le Olimpiadi, i Mondiali di calcio, il suo amato Tour tra fasti e pasti. Ha sempre combattuto gli «ismi» dell’arroganza. Prima che una grande firma, un uomo grande.
Gazzetta dello Sport, Corriere d’Informazione, Epoca, un po’ di Occhio e, dall’alba degli Ottanta, fisso a Repubblica con escursioni guerinesche e nel sociale. I suoi «Cattivi pensieri» costituivano la messa laica della domenica. Lo si leggeva per piacere, non per routine. E’ stato, di Gianni Brera, il custode più fedele, più appassionato, più colto.
Se Gianni viveva a Milano con Paola, Giuseppe viveva a Roma con Sandra. Molisano di Campobasso, uomo di cultura brillante, e non solo perché laureato in giurisprudenza. Aveva la passione per la scrittura e per i cavalli, giocava battitore libero nelle partite tra colleghi. Coniò il termine «fusignanista» in onore dei devoti di Arrigo Sacchi al cui vangelo inflisse fior di recensioni. Gli piaceva risalire all’origine delle parole, m’investiva di indovinelli e se per caso, a proposito di libeccio, non mi veniva subito in mente Libia, mi canzonava.
Si convertì al computer con la riluttanza dell’artigiano che al progresso «purché corra» predilige la lentezza della «cucina»: un patrimonio, non una seccatura. Passava dal trotto al sistema di Herbert Chapman con la classe di chi può permettersi persino di essere ispido, tanto era il vantaggio che aveva sul gruppo.
