Assemblee fra squadre e tifosi: mai più sotto una «sola» curva
Torniamo a Spezia-Milan dello scorso 13 maggio. Il caso, sollevato e dibattuto da un mare di lettori, non è nuovo. Riguarda i rapporti (incestuosi) fra le squadre e gli ultras.
Un passo indietro per farne uno avanti. A volte, se non indispensabile e risolutivo, può risultare prezioso. Torniamo, tutti insieme, a Spezia-Milan 2-0 di sabato 13 maggio. Il caso, sollevato e dibattuto da un mare di lettori, non è nuovo. In Italia, soprattutto, ma anche all’estero. Riguarda i rapporti (incestuosi) fra le squadre e gli ultras: non tutti mascalzoni, ci mancherebbe. Le regole (molto sliding, da noi) scoraggiano le collusioni, proibiscono i traffici, con o senza virgolette. Più o meno, meno o più.
Di sicuro, una brutta scena. Mortificante, al netto degli incitamenti finali: condivisi e condivisibili. I giocatori e l’allenatore in religioso silenzio, un capo-popolo che apostrofa e sprona all’assalto dell’euroderby. Ripeto: tristezza infinita. Ma attenzione: la «resa» del Picco è la punta dell’iceberg, non l’iceberg. L’iceberg risale a quando, noi per primi, abbiamo tollerato il «presepe» contrario, e cioè la squadra vittoriosa che scivola festosa sotto la curva. Una. Quella. Come se, «mutatis mutandis», gli inquilini non fossero più feccia ma crème, alla francese, non più avanzi di qualcosa ma fraticelli previdenti e premurosi.
In casi del genere, io, capitano, avrei fatto e farei sempre così (nel bene e nel male): squadra a centrocampo, applausi a ogni settore, da curva a curva, dai distinti alla tribuna (tanto per rendere l’idea geografica). Tipo giocatore di tennis che, per celebrarsi, gira su se stesso ringraziando platee e piccionaie. Voce dal fondo: e se mai ci si trovasse in trasferta? Identico protocollo, a modica distanza. Con un occhio di riguardo, naturalmente, allo spicchio dei «nostri».
Se vai solo da una parte, la giustifichi (a prescindere), la rendi «stato» con cui trattare. Pensando a Paolo Maldini, che proprio con gli irriducibili milanisti litigò perché qualcuno aveva preteso le scuse dopo l’incredibile finale di Istanbul (le scuse! a Paolo!), l’episodio spezzino fa digrignare i denti alla memoria. Ricapitolando: censurata l’assemblea di condominio del Picco, mai più sotto «una» curva, ma tutti a metà del guado. In barba all’esito.
Nei panni del tifoso, capisco che i prezzi dei biglietti possano aver esacerbato i rapporti inter-aziendali, e che – nella fattispecie – le sconfitte così brucianti negli ultimi derby possano aver moltiplicato l’ira funesta della torcida rossonera. Ma guai a valicare certi limiti. Quando, con papà, andavo allo stadio, era un altro secolo, se non addirittura un altro mondo, ma alcune procedure rimangono valide: 1) mettersi in coda al botteghino; 2) se si vince, applaudire; 3) se si perde, fischiare. 4) Zero agguati, zero pretese di armistizi o messe al muro. Punto e a casa.
Il mondo ultra sappiamo dov’è arrivato, per intolleranza (delle schegge più estreme) e per tolleranza (delle società, della società). La fotografia del Picco è una Caporetto indolore, ma in uno scorcio storico in cui l’immagine è tutto va al di là, molto al di là, dell’applauso formale e terminale. Fermo restando che, tra i più fanatici, non albergano esclusivamente teppisti e sfascisti. Al contrario: ricordo, da molti di loro, atti di squisita solidarietà e generosa collaborazione.
Cosa avrebbe dovuto o potuto fare Gabriele Gravina, presidente della Federazione, oltre le veline ufficiali e censorie lestamente diramate? Avrebbe potuto fare poco il più grande (per me) dirigente del calcio italiano, Artemio Franchi, del quale – tra parentesi – il 12 agosto ricorreranno i 40 anni dalla scomparsa, figuratevi Gravina, nano fra nani: niente.