Più che l’allenatore, il problema del Napoli resta sempre Napoli

Il problema del Napoli è sempre stato Napoli. Lo confermano gli striscioni contro Luciano Spalletti e Aurelio De Laurentiis.

Articolo di Roberto Beccantini23/05/2022

©️ “NAPOLI” – FOTO MOSCA

Il problema del Napoli è sempre stato Napoli. Lo confermano gli striscioni contro Luciano Spalletti e Aurelio De Laurentiis. Nomi e cognomi, mai: minoranze vigliacche e sediziose, sciacalli che bivaccano sulla carcassa dei sogni. E dei bilanci. La favola del «chiagni e fotti» diventa spesso, non appena la classifica ti butta giù dal letto, la morale del «chiagni e fottiti».

Nella mia griglia estiva, il Napoli figurava al quinto posto, dietro Inter, Milan, Atalanta e Juventus (retrocessa dal podio dopo la fuga di Cristiano Ronaldo). Scrissi, nel dettaglio: «Scaricato Gattuso, tocca a Spalletti. La «tipo» è da scudetto, la panchina non ancora. Osimhen ha concluso il rodaggio: allacciatevi le cinture. E Insigne, firmi o non firmi, va confermato. Zielinski, Fabian Ruiz: ora o mai più».

È arrivato terzo, la zona Champions conquistata di slancio dopo aver vinto le prime otto partite. Dunque, almeno per il sottoscritto, al di là di ogni più rosea previsione. Non solo per il sottoscritto, forse: ma rileggersi è esercizio faticoso. E seccante. Meglio vivere «sui pezzi». Gli italiani sono pigri, dimenticano, non collegano. Pronti, se conviene, a trasformare l’opinione in fatto o il fatto in opinione. Ottavio Bianchi, che a Napoli fu più domatore che detonatore, non ha dubbi: «falta» di equilibrio. Aveva Diego: poteva andare al di là di tutto, di tutti. Ma serviva un’idea di tecnico che l’ambiente ignorava: e, in cuor suo, detestava.

Non è facile, a Napoli. Non ci sono due squadre come a Milano, a Roma o a Torino, fra le quali distribuire amori e rancori. Ce n’è una, vantaggio enorme se si riesce a calibrarne le coccole e gli schiaffi. Da quando ha comprato il Bari, portandolo in serie B, De Laurentiis mi è sembrato più distratto, al di là delle penultime cene e delle ultime orazioni. Napoli è Napoli, sedotta dagli eccessi, dalla massima di Eduardo De Filippo citata nel libro «Sopra il vulcano» da Camilla Bianchi, figlia di Ottavio: «Essere superstiziosi è da ignoranti, ma non esserlo porta male».

Tutto ciò premesso, e al di là dei pronostici, un campionato così lento, così strano e così equilibrato non può non scatenare torme di rimpianti, plotoni di rimorsi. Pensi e ripensi, il Napoli, alle tre sconfitte con Empoli e Spezia al Maradona, e poi a Empoli, 2-0 fino all’80’ e nessun indizio di crollo. Tre partite, zero punti. Quando, in condizioni normali, avrebbero dovuto essere nove. Lo scudetto, il Napoli l’ha perso proprio lì. E proprio in casa, a conferma che il fattore campo non sempre coincide con il «miedo escenico» di madridista memoria (e attualità).

Va di moda, naturalmente, la caccia al capro espiatorio. Meglio se un capo. I miei indizi, viceversa, portano a Napoli. Alla sua generosità disordinata, al suo complottismo strisciante e deviante. Che cavolo c’entra l’allenatore? Non andava bene Carlo Ancelotti, per tacere di Rino Gattuso (una coppetta Italia, comunque). Non va più bene «Lusciano», capace di sfoderare il calcio più bello del campionato e, improvvisamente, incapace di conservarlo. Ha le sue colpe – l’oblio di Dries Mertens, i cambi contro la Roma – ma vogliamo parlare della scomparsa di Piotr Zielinski? Il mister lo porta sino a un certo livello e poi, scriteriato e scellerato, lo molla? Suvvia. Altra cosa: un Napoli (un’Inter, una Juventus o un Milan) ha bisogno del tecnico per battere, con tutto il rispetto, lo Spezia e due volte l’Empoli? L’alibismo è pista dolce ma falsa. Non è come andare in ufficio, è come andare in vacanza, lontano dal tedio di analisi più complesse, meno ammiccanti. I social hanno moltiplicato i tribunali e indirizzato i processi (sommari e, in alcuni cari, «somari») verso la ghigliottina. Peggio per noi.

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