L’arte rara del perfetto coach

Essere un allenatore di successo indipendentemente dalla squadra o dai singoli è un compito straordinariamente difficile in cui pochi riescono.

spalletti
Articolo di Luciano Scateni25/02/2022

© “SPALLETTI” – FOTO MOSCA

È da superuomini del bordo campo coniugare senza errori il verbo ‘allenare’. Per capirci: noti big della panchina, per fare qualche esempio Allegri, Mazzarri, Sarri e perché no Spalletti, non di rado cadono dalle stelle e si ritrovano nella polvere. Perché mai conquistano scudetti, coppe internazionali con la squadra ‘ics’ e meritano il benservito alla guida di squadre ‘ipsilon’?

Perché allenare è uno straordinario, elevato concentrato di qualità che assegna non all’infinito la corona di alloro. Include alta competenza tecnica, forte personalità, ascendente positivo sui calciatori, doti di psicologo, intelligente controllo dello spogliatoio, prontezza di decisioni in ogni fase della partita, cambi appropriati, articolati  e assimilati  modelli di gioco, aggiustamenti in corso d’opera, un attento  dosaggio di lodi e rimproveri ai giocatori, sintonia con lo staff medico e i preparatori atletici, rapporti paritetici e reciprocamente rispettosi con i vertici della società, carisma, autorevolezza, massima ottimizzazione delle caratteristiche di ciascun giocatore, il buon senso di pater familias, lo studio  preventivo delle avversarie, la calma dei forti anche nelle avversità, eccetera, eccetera, il rispetto del principio a cui su ispira “Giuro di dire la verità, nient’altro che la verità…”.

Si capisce perché è così raro diventare un allenatore di qualità indipendente dal valore della squadra, perché sono fenomeni rari Guardiola, il Klopp del Liverpool e pochi altri.  Perché è arduo condividere il commento di Spalletti alla lezione di calcio subita ieri sera da Xavi, Piquet, De Jong, Traoré: “Abbiamo affrontato il Barcellona a viso aperto. Dispiace per il risultato”. Perché, ignorata colpevolmente la pericolosità del trio catalano d’attacco ha chiesto a Mario Rui di salire alto nella corsia sinistra, con la conseguenza di sguarnire la difesa dove il Barca ha concentrato saggiamente i suoi attacchi più pericolosi; perché non ha arretrato Elmas a centrocampo dove Demme vagava smarrito e in stato confusionale e richiamato tardivamente in panchina. Al suo posto, molto prima, si sarebbe liberato un posto per Politano, o per Mertens, Ounas.

Dettagli, certo: di fondo, ben più grave, è il vuoto spinto di strategie per il collettivo e i singoli, l’uso improprio dei cambi e perfino la disattenzione per dettagli tutt’altro che trascurabili, come il pericoloso cincischiare di Koulibaly e compagni della difesa nei pressi della propria area di rigore, l’assenza di schemi per i calci di punizione, i corner, i lanci da fondo campo. Se il Napoli, e non solo di ieri sera, ha denunciato stati prolungati di apatia, anche opposto a formazioni modeste, se ha reiterato l’indisponente alternanza di un tempo di buon livello e di una altro in tono dimesso; se in vantaggio di un gol ha tirato i remi in barca e si è illuso, pagandolo, di conservare il vantaggio per il resto della partita; se giocatori come Mertens e Insigne, a tratti anche Fabian e Zielinski hanno deluso perché fuori ruolo, i problemi in cabina di regia  evidentemente non mancano e non li ha svelati l’orrenda resa di ieri sera al Barcellona.

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