Cristiano e quel minuto di Anfield: per fortuna, il calcio è «anche» questo

Al settimo minuto, non a caso, Anfield dedica un omaggio, un tributo, al nemico di sempre, Cristiano Ronaldo. Sessanta secondi di tregua, tra "Reds" e "Red devils" per condividere una sofferenza immane. Per fortuna, il calcio è anche questo.

Articolo di Roberto Beccantini25/04/2022

Non abbiate paura di emozionarvi. Neppure davanti a un avversario ricco e, spesso, arrogante. L’onore delle armi, e le armi dell’onore, sono esercizi che aiutano a sentirsi più leggeri, se non proprio migliori. Anche se raccontano la realtà senza cambiarla: quando, magari, pagheremmo per poterlo fare.
Bando alla melassa, avrebbe brontolato Enzo Bearzot. Martedì 19 aprile: al settimo minuto di LiverpoolManchester United, in quel momento già 1-0 e alla fine 4-0, tutto Anfield si alza in piedi e applaude – senza distinzione di fede o di fedina – Cristiano Ronaldo, nemico di sempre. Georgina, la sua compagna, aveva appena perso uno dei due gemellini. Quell’ovazione era, e rimarrà, un omaggio, un tributo. Le condoglianze che si fanno per telefono o di persona, e che un’arena fa così, d’improvviso, senza calcoli e senza scrupoli, perché ci sono «cose» che vanno oltre la banalità dell’odio, e pazienza se a sottolinearlo si passa per tromboni.

La scelta del settimo minuto risale al numero che Cierre ha reso popolare nel mondo. Come, in Italia, a ogni tredicesimo minuto delle partite che coinvolgono la Fiorentina, si leva un pensiero, un applauso, un coro in onore di Davide Astori, scomparso nel sonno il 4 marzo 2018 a Udine, capitano della Viola, dello stesso ceppo dei Gaetano Scirea. E che, di «taglia», portava proprio il tredici.
Naturalmente, Cristiano non c’era. C’era, però, un sentimento forte. C’era, soprattutto, quel buon senso che, rovesciando il celeberrimo passaggio dei «Promessi sposi» di Alessandro Manzoni, «”non” se ne stava nascosto per paura del senso comune». Brividi di commozione: ebbene sì. Momenti intensi, di gruppo. Ferma restando l’inimicizia che separa i Reds di Anfield dai Red Devils di Old Trafford. Sessanta secondi di tregua, per condividere una sofferenza immane. Direte: non sono certo Cristiano e Georgina i primi e gli unici genitori ad aver perso un piccolo in circostanze così strazianti. Per carità. Ma ogni branco protegge i suoi valori e i suoi valorosi, la fama aggrega e spacca, non si può fingere di essere tutti uguali. Almeno sul campo.

Chissà come avrebbe reagito uno stadio italiano. I «devi morire» appartengono, da tanti lustri e da troppi lutti, a un repertorio trasversale che, di minoranza in minoranza, ha prodotto una spregevole maggioranza. Riguarda noi, non solo gli ultràs, che spacciamo per infami quando, invece, sanno essere, «anche», preziosi testimoni: penso alla tragica morte di Federico Aldrovandi, pestato a sangue da quattro poliziotti a soli 18 anni in una notte di settembre (del 2005) a Ferrara.
Liverpool, Anfield. Il rito del minuto di silenzio ribaltato nella colonna più sonora e chiassosa, scandita – al termine – dal torrenziale «You’ll never walk alone» che, da quelle parti, è Te Deum e Ave Maria. Il più sacro degli inni profani. E all’Emirates Stadium di Londra, sabato scorso, Arsenal-Manchester United 3-1 ha scolpito e scortato il primo gol del «day after», dalle procedure molto sobrie: Cristiano, pudico e quasi timido, indica il cielo con un dito, e il popolo applaude. Niente «siuuuu», niente balzo alla «qui comando io». E persino un buffetto a Bruno Fernandes, dopo il rigore sparato sul palo. Rigore che, un tempo, mai avrebbe ceduto.

Lungi dall’intento di trasformare una tristezza infinita in uno spot strappalacrime, ci aggrappiamo al passaparola che ha spinto un Colosseo a farsi muro contro il biasimo tipico dei gladiatori che si detestano. Un minuto, uno solo. Jim Morrison diceva: « A volte basta un attimo per scordare una vita, ma a volte non basta una vita per scordare un attimo». A 37 anni, Cristiano, che degli attimi è sempre stato padre, non lo dimenticherà.

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