Fuori orario
Ma era davvero di difficile lettura la fragilità del Napoli nonostante l’avvio positivo dell’era Spalletti?
La salute psicofisica, lo raccomanda la medicina olistica, purtroppo largamente ferma ad Epicuro, o giù di lì, incapace com’è di condividere la neuroscienza avveniristica che affida presente e futuro dell’umanità alla conoscenza inedita del rapporto diretto del cervello con benessere e malessere, sembra aver finalmente inglobato il principio fondamentale della buona salute affidata alla prevenzione, ma sorprende che lasciato trascorrere secoli su secoli prima di capirlo.
Il principio ha radici nella saggezza ‘spicciola’ del contadino, che beffato una prima volta per colpevole trascuratezza, sa di dover sprangare la porta della stalla prima che scappino i buoi. Non c’è affinità elettiva tra le disavventure del calcio Napoli e la saggezza contadina e la mancanza complica il percorso accidentato del club azzurro, colto alla sprovvista dagli esiti di una crisi, con origini antiche, sottovalutata o addirittura ignorata dai vertici. Ma era davvero di difficile lettura la fragilità del Napoli calcio, l’aggravarsi di una crisi che risale alle prime défaillance tecnico-tattiche della squadra, più che imperfetta nonostante l’avvio positivo dell’era Spalletti? Sarebbe un irragionevole infierire stilare l’elenco di chiari segnali dell’assenza di entusiasmo sul volto di Insigne e compagni, segnalare che dopo la fase critica di studio della cabina di regia, senatori e nuovi arrivi hanno sottoposto ad esame senza sconti la ‘filosofia’ dell’allenatore, le sue qualità di stratega e collante dello spogliatoio.
Disagio, incomprensioni, mancata empatia della squadra con la società, erano di facile lettura. In particolare destava sconcerto la standing ovation degli addetti ai lavori, dei media, della tifoseria obnubilata dal coro di sperticati quanto immotivati osanna per il tecnico livornese. Il brusco volta pagina, tardivo, fuori tempo massimo, incombe sulla testa dei giocatori, sul loro colpevole disimpegno, sullo sleale anteporre progetti personali di fine campionato al dovere di corrispondere agli obblighi contrattuali di professionisti strapagati. Pende come spada di Damocle, sulla responsabilità di Spalletti, coccolato per assecondare gli interessi finanziari della società, esente da contestazioni per aver sottovalutato l’evidente anarchia dei singoli, espressione di creatività zero in cabina di regia, con inevitabile ricaduta sull’inesistente personalità della squadra, la vulnerabilità nell’impatto con ‘nemici’ di vertice e avversari modesti. Effetti collaterali: scelte disincentivanti del ruolo anomalo imposto ad affermati senior, nessuna idea di contrasto alle specificità strategiche delle avversarie, sarabanda da dilettante allo sbaraglio nel delicato e spesso decisivo ricorso ai cambi in corso d’opera, evidente assenza di feeling con chi è in campo, plasticamente evidente per le urla di censura, destabilizzanti, rivolte da bordo campo ai giocatori.
Tutto occultato per tre quarti e più di un campionato in progressiva défaillance. Lo spauracchio del ritiro permanente, com’è ampiamente dimostrato, soddisfa la volontà giustizialista dei tifosi presi per i fondelli, ma quasi sempre inasprisce i rapporti già tesi con il club dei giocatori, convinti, come si dice a Napoli, che “’o pesce fète da ’a capa”. Quasi ci sarebbe da augurarsi che De Laurentiis, posto davanti all’aut-aut Napoli-Bari, sia colto da irresistibile innamoramento per trulli e ulivi di Puglia. Non dopo aver maturato una saggia decisione: il presidente condivide la convinzione sul ‘ritiro’, che avrebbe solo inasprito le tensioni esasperate da contrasti non proprio amichevoli dello spogliatoio dopo il 2 a 3 di Empoli, ma è anche difficile che i problemi complessi del Napoli si possano risolvere davanti a una pizza e a un bicchiere di Lacrima Christi.