José Altafini ricorda, perfettamente, quei giorni di assoluta e abbagliante follia calcistica: “Nel 1965 arrivammo al Napoli io e Omar Sivori. I tifosi ci accolsero con un entusiasmo da lasciarci senza fiato e con il cuore a mille. Il Cabezòn venne festeggiato alla stazione Mergellina da migliaia di persone. Sembrava di essere a carnevale. Abbiamo formato una coppia all’insegna delle reti e dell’allegria. I suoi ultimi anni furono, però, condizionati da un brutto infortunio, durante una amichevole, in Colombia e dalle sei giornate di squalifica rimediate, in occasione di un match con la Juventus, per un diverbio acceso con l’arbitro Fulvio Pieroni. Nel ‘68 decise così di smettere. Un peccato, davvero. Era un personaggio autentico, imprevedibile in campo e una persona angelica fuori. È stato anche un eccellente commentatore televisivo. Lo abbraccio forte, con affetto, nostalgia e amicizia. Non lo dimenticherò mai”.
José racconta così a SportDelSud il “suo” Sivori, uno dei più forti fantasisti di tutti i tempi, il numero 10 che anticipò, con i suoi dribbling e la sua fantasia, l’arrivo del mio Borges della pelota, Diego Armando Maradona.
Il sinistro di Omar era opera di qualche dio pagano; sul prato verde era sfrontato, spavaldo, arrogante: si divertiva a beffare gli avversari con i suoi tunnel e le sue finte, i calzettoni abbassati, i capelli arruffati, il sorriso da ultima trincea. Nella vita quotidiana era una persona tranquilla, persino introversa. Ho avuto la fortuna di conoscerlo, di ammirare la sua trasparenza, quel suo modo di recuperare il passato con dolcezza, senza rimpianti o rancori. Ha legato il suo nome e il suo talento soprattutto all’amata Juventus.
Arrivò in bianconero nel 1957, voluto dal presidente Umberto Agnelli: che gli mise al fianco il possente centravanti gallese John Charles. Quei due, intuì Walter Veltroni, sembravano usciti da un romanzo di Osvaldo Soriano. Alla corte di Madama, Omar diede letteralmente spettacolo. Conquistò tre scudetti e tre coppe Italia, ottenendo, in qualità di oriundo, nel 1961 il prestigioso “Pallone d’Oro”. Vestì la maglia azzurra e partecipò allo sfortunato Mundial del Cile del’62. Lasciò Madama in aperta polemica con l’allenatore paraguaiano Heriberto Herrera, quello del “movimiento, movimiento!”, il calcio totale in anticipo sulle mode e sui tempi. Heriberto non voleva divi nella sua squadra. E considerava Omar alla pari del difensore Coramini. Sivori non poteva, ovviamente, gradire. E fu l’inevitabile addio. Con tanta amarezza da parte del Cabezòn.
Ha scritto il critico letterario Massimo Raffaeli nel suo imperdibile “Sivori, un vizio”, edito da Italic (Ancona, 2010): “È nel momento in cui si accinge a traslocare da Torino a Napoli che Sivori scopre con stupore di essere davvero un mito. Sacchi pieni di corrispondenza inevasa ingombrano casa sua, migliaia di missive che gli anni del successo hanno accumulato e quasi ibernato in un “iceberg” glorioso dove l’ammirazione attinge le vette del culto e della vera e propria idolatria. Sono lettere di ragazzini, di tifosi, di virtuali fidanzate, di pensionati, di militari, studenti, detenuti, dove si deposita la materia grezza per una fenomenologia, anzi per una antropologia, del tifo”.
Omar sapeva di essere un giocatore adorato. Fu così anche quando era una giovane stella, uno degli “angeli dalla faccia sporca” del River Plate. Il suo modo di giocare catturava ammirazione e passione, sapeva come domare il pallone, come accendere le stelle. Il calcio, insomma, come volontà e rappresentazione.

Il Napoli di Achille Lauro e Bruno Pesaola lo prese in quel ‘65 di tutti i sogni possibili e impossibili. E i sostenitori potevano esclamare, al settimo cielo, “Sivori si O… mar e’ Napule!”.
“Sì – aggiunge Altafini – io e Sivori ci siamo sentiti a casa per davvero. Abbiamo regalato ai sostenitori partenopei domeniche indimenticabili e in cambio abbiamo ricevuto il loro infinito calore. Lì, abbiamo recuperato il Brasile e l’Argentina: eravamo di nuovo nel nostro Sudamerica. Che stagioni, quanta bellezza…”.
Sivori rappresentò per Napoli un sogno breve, ma intenso. Indimenticabile. Una leggenda, sempre e per sempre.
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