Il diario di Darwin: quel giorno in piscina con Pelé
Sport del Sud raccoglie i ricordi, gli appunti e le nostalgie di Darwin Pastorin. La prima istantanea cattura la leggenda Pelé.
Chi non capisce l’importanza che il calcio ha nelle vite di noi appassionati, come scriveva Soriano, si ritiene superiore, perché crede che sia uno sport consistente in ventidue imbecilli che corrono dietro una palla. E dietro questo non riesce a cogliere nulla altro. Cosa spinge a le risate e ai pianti, alle pene e alle esaltazioni?
Ha lo sguardo ampio chi pensa questo. Uno sguardo che non gli permette di mettere a fuoco il particolare: la storia universale che si compie in 90 minuti. L’emozione che è alla base di tutto. Che si accende non appena un piede tocca una sfera, che sia di un bambino o di un supercampione. Il calcio stesso è emozione.
Viviamo di quella emozione, di quell’amore eterno, fatto di una forma rara. Sono tante le cose di cui potremmo fare a meno nella nostra vita, tra questo di certo non c’è il calcio, la maglia per la quale tifiamo, il giocatore che per noi è un idolo e non importa che colore indossi. Ecco che noi di Sport del Sud abbiamo voluto sfruttare l’occasione di farci raccontare, di raccogliere i ricordi, gli appunti e le nostalgie di una persona che ha legato al calcio tutta la sua esistenza: Darwin Pastorin. Per chi scrive un mentore e un amico, per chi lo conosce solo per fama una firma importante del giornalismo sportivo italiano. Una firma del Guerin, di Tuttosport, di Sky e La7, tra le altre. Uno scrittore di calcio e letteratura, memorie personali e collettive, formatosi attraverso gli insegnamenti di Arpino e Caminiti (due totem). Un fratello che ha deciso di aprirci la porta e di sfogliare, settimana dopo settimana, il suo diario di esperienze uniche.
Darwin, io non posso non inaugurare questa rubrica, chiedendoti di una conoscenza della quale mi hai raccontato dal vivo. Qualcosa che mi ha meravigliato e che credo possa meravigliare chi ci segue. Il tuo ricordo di Pelé, quel giorno a Guayaquil…
Il primo ricordo della mia vita legato a Pelé è datato 1958. Avevo tre anni, ero a San Paolo del Brasile, e la Seleçao conquista la sua prima Coppa del Mondo, che si chiamava Coppa Rimet. Tutti, celebravano quei ragazzi, i campioni: Garrincha, il mio amico Altafini – che giocò le prime partite senza prendere parte alla Finale – e questo giovanotto chiamato Pelé. Aveva, a quel tempo, diciassette anni ed era capace di prodezze straordinarie, gol incredibili. La sensazione netta era quella di assistere alla nascita di una stella. Io ero solo un bambino e quel nome mi ricordava il protagonista di una favola, di un’esplosione di gioia. Soriano diceva che la memoria ingigantisce tutto, ma a me pare di ricordare perfettamente il sentimento che si viveva.
Arrivando in Italia, poi, ho continuato a seguirlo. Nel Mondiale del ’62 si fece male subito e il grande protagonista fu Garrincha. È nel ’70 che diventa il Re di quella Coppa. Quello è il Mondiale di Italia-Germania 4 a 3, però nella Finale contro gli azzurri, lui segna un gol di testa restando su in aria. Burgnich fa in tempo a saltare e a scendere e lui è ancora in volo. Gianni Brera scrisse che sembrava appeso ad un immaginario ramo. E anche prima di quella rete, contro l’Inghilterra aveva compiuto un gesto simile, senza trovare il gol per l’opposizione di Banks e, non a caso, quella parata per anni è stata definita la più bella di sempre.
Non abbiamo avuto modo di vederlo in Europa, perché lui sapeva che lasciare il Brasile avrebbe significato lo scoppio di una rivoluzione. C’era stato un forte interesse dell’Inter, ma soprattutto della Juventus, intenzionata a portarlo a Torino. Ma al Santos la questione diventò politica e lui rimase fino a fine carriera, prima di andare ai Cosmos. Pelé era una persona curiosa, gli avrebbe fatto piacere provarsi in un campionato diverso rispetto a quello brasiliano, ma, allo stesso tempo, era molto attaccato in maniera forte alla sua terra, aveva un amore viscerale per il Brasile. Ancora adesso, nei giorni della sua sofferenza, della sua malattia, carica dei post su Instagram legati al Brasile, ai ricordi, ma anche ai tifosi, alla passione che avevano per lui e che riconoscevano in lui.
Basti pensare che nel Santos, quando si faceva male un portiere, lui era pronto a prendere anche il posto tra i pali. Mi diceva Sormani, che ha giocato con lui, che quando questo accadeva tutti volevano che non lo facesse: come può andarci il più forte di noi? Era assurdo. Eppure anche in porta dimostrava di essere un fuoriclasse, di essere importante per la sua squadra, più di suo figlio Edinho. Edinho è stato un portiere e non dimentico che un vecchio telecronista vedendolo in azione disse: anche tu, caro mio, come tuo padre Pelé, raggiugnerai mille gol, ma subiti.
Io l’ho visto per la prima volta nell’86, alla Coppa Pelé per veterani. Partecipava anche l’Italia, con Facchetti, Boninsegna, Causio. Altafini invitò tutti nella sua casa a Piracicaba, dove è nato. E dove incontro Pelé, in un campetto nei sobborghi di San Paolo, sul quale si allena la Nazionale brasiliana dei veterani. Io li osservo e lui manca, non c’è. Ad un certo punto arriva una Mercedes bianca targata Santos1000 e da quella macchina scende Pelé. Va negli spogliatoi, si fa massaggiare, si prepara ed entra in campo. Per la prima volta ho visto le gambe di Pelé, una geografia di cicatrici.
Appena toccava il pallone, dico la verità, non si sentiva niente, era una carezza quella che gli dava. Poi, succede un fatto clamoroso. Si gioca la partitella di allenamento e la sua squadra ha un rigore a favore. In porta c’è Renato. Pelé batte e Renato respinge. Lui dice: calmi tutti, non è possibile, ribatto. Ribatte e Renato glielo respinge ancora. Pelé riprende la palla, seccato, la rimette sul dischetto e Renato gliela respinge ancora. Una cosa incredibile, se pensiamo che ha segnato il millesimo gol della sua carriera in quel modo. A quel punto resta un altro po’ in campo e poi se ne va. Prima negli spogliatoi e poi per ripartire nella sua Mercedes bianca targata Santos1000. E in quei giorni che ho avuto modo di conoscerlo, di parlargli. Una persona disponibilissima. Un grande amico di José (Altafini). Loro hanno giocato insieme in Nazionale, quando José vestiva la maglia del mio Palmeiras.
L’ultimo volta che l’ho visto, invece, è stato nel 1993 in Ecuador a Guayaquil, si giocava la Copa América. Nell’albergo dove sono, nel pieno centro della città, arrivano vari personaggi importanti del calcio, io ad esempio facevo cyclette e palestra con Menotti. E, poi, ad un certo punto mi trovo a fare il bagno in piscina con Pelé. E devo dire che sono lì con una delle leggende del calcio – lui e Diego, le due leggende – e scambio due parole, non sulla Copa, ma sulla nostra terra. Lui mi chiede delle mie origini. Un incontro veloce ma simpatico.
Io sono un Maradoniano, ma ho sempre avuto un grande rispetto e una grande stima per Pelé. Per quello che ha fatto. Ai giovani consiglio di andare su YouTube a guardare i suoi gol, sono straordinari sin da quando era piccolo. Oggi, invece, lo seguo con ansia per le sue condizioni di salute, perché è un simbolo del Brasile.
Lui è stato un giocatore molto amato da Jorge Amado che ne ha sempre parlato in termini di grande stima e con entusiasmo. Anche se l’eroe dei poveri continua ad essere Garrincha, di cui parleremo perché su di lui ci sono tante cose da dire.
Darwin bagno in piscina con Pelé e viaggio in aereo con Diego Armando Maradona. Due esperienze di cui forse nessuno può vantarsi…
Certo. E di numeri 10 ne ho conosciuti. Dopo il Mondiale dell’82, quando l’Italia è diventata l’El Dorado del calcio, avevamo assieme – oltre ai campioni del mondo – Platini, Zico e Maradona, Léo Juniór, Falcao, Careca, Sócrates. Tutti volevano venire da noi per l’effetto Mundial. Si erano spalancate le porte ai fuoriclasse. Ricordo quelle stagioni con stupore, con meraviglia. Nel 1986, poi, arrivò il Mondiale di Diego. E in quegli anni, nel giro di quattro anni, tra l’epica del Mondiale di Spagna e la bellezza del Mondiale di Diego, è successo di tutto.
Diego e O Rei, sempre messi uno contro l’altro. Che rapporto c’era tra loro e in quella rivalità si può vedere quella poi contemporanea tra Messi e Ronaldo?
Tra Diego e Pelé ci sono state delle frecciatine, delle battute, ma tutto è finito con un grande abbraccio. Diego ha avuto delle parole bellissime per Pelé, e Pelé ha pianto per la morte di Diego. La rivalità tra Cristiano e Messi è diversa, è un rivalità dei tempi di oggi, dei tempi dei social. Un rivalità fatta su chi vince più Palloni d’Oro e più che astio c’è la competizione per essere numero uno.
Ma il calcio di oggi è diverso. Io non lo seguo con la stessa passione. Io con tanti dei ragazzi dell’epoca sono cresciuto insieme, perché eravamo coetanei. Platini era del ’55 come me, cosi Edinho. Pablito, che ogni volta mi commuovo a nominare, era del ’56. E con quei calciatori si era amici. Il calcio era vicinanza non lontananza. Non dovevi stare agli appuntamenti fissati dall’ufficio stampa. Potevi andare agli allenamenti, potevi stare con chi ti pareva. Avevi un rapporto che andava oltre quello tra cronista-calciatore. Ti vedevi oltre il campo. Andavi a pranzo, andavi a far passeggiate, a casa. Imparavi a conoscere bene il mondo del calcio e loro conoscevano il mondo dei giornalismo. Perciò ancora adesso con i ragazzi di quel tempo ho rapporti d’amicizia, basati sulla sincerità e sulla lealtà.
Quando penso a Paolo o a Scirea, sono assenze-presenze. Non ci sono più ma sono vicini, non li ricordo solo per commemorarli, li ricordo durante le giornate. Paolo era caro, mi prendeva in giro per il mio Brasile.
Si divertiva a salutarmi facendo il segno del tre (i gol segnati ai verdeoro nel 1982). Il sorriso era la forza di Paolo, un sorriso aperto. Ogni volta era stupito, meravigliato. Era di una bellezza straordinaria quel sorriso di un ragazzino.
P.S. Prima di salutarci. Abbiamo parlato tanto di Sud America, agli appassionati, allora, voglio citare un libro “Matti, miti e meteore del fùtbol sudamericano” di Remo Gandolfi (uno bravo davvero), pubblicato da Urbane Publishing. Io lo consiglio a chi ama il Sud America. Si va da Moacyr Barbosa – sul quale ho scritto un libro – a Figueroa, dal “loco” Gatti a Kempes, Paulo César Lima, Martín Palermo, Zamorano. Tanta roba. Lo consiglio agli amici di Sport del Sud.
Dal “Diario di Darwin. Ricordi, appunti e nostalgie raccolte da Sport del Sud”.