“Siamo quello che mangiamo”: il caso Lobotka e non solo

Come l'alimentazione, e chi cura tale aspetto, cambia gli eventi nel calcio. Dalla Copa Libertadores del 1986 all'ascesa di Lobotka.

Articolo di Lorenzo Maria Napolitano29/01/2022

© “LOBOTKA” – FOTO MOSCA

In una fredda serata d’Europa League si consuma la disfatta del Napoli contro il Granada. Una squadra priva d’anima, anche di riserve però; sei su otto di queste erano ragazzi in prestito dalla Primavera. Il Napoli era davvero in una situazione d’emergenza, e non solo perchè s’è trovato fuori dall’Europa appena superata la fase a gironi. È una fase particolare per la squadra: l’allenatore sa di essere più fuori che dentro e la squadra è più disunita che mai. La stagione termina nel peggiore dei modi.

La città, alla ricerca del colpevole, addita sì allenatore e Presidente (qual è la novità verrebbe da pensare), ma anche alcuni calciatori. Tra questi, Nikola Maksimović, Tiémoué Bakayoko, Amir Rrahmani e Stanislav Lobotka. Il primo non ha rispettato minimamente le aspettative, a seguito di una trattativa quasi biennale con il Torino il calciatore difficilmente riesce a dimostrare di valere la cifra per cui è stato acquistato. Il francese, molto probabilmente, non rispecchiava le caratteristiche del (e di) Napoli. Il kosovaro s’era dimostrato ancora acerbo sotto alcuni punti di vista, ma era sotto gli occhi di tutti che era solo questione di tempo. Oggi, infatti, è pedina – quasi – inamovibile della difesa. Per il centrocampista slovacco si può proporre un osservazione più ampia. Anche lui messo subito sulla graticola, e non proprio entrato nelle grazie di Gattuso, a fine stagione, come ha recentemente dichiarato, chiede addirittura d’essere ceduto.

Tra le “peculiarità” negative evidenziate nei confronti del giocatore vi era il rivedibile stato di forma: troppi chili in più e molto lento in campo.

Con Spalletti Stanislav Lobotka ha subito una vera e propria trasformazione. Non c’è bisogno di mettere a confronto i minuti tra un anno e l’altro, quelle sono statistiche, piuttosto sistemiamo dinnanzi allo specchio lo Stanislav Lobotka di oggi e guardiamolo con l’espressione di ieri. La questione è squisitamente tecnica, persino tattica, perché quasi senza averne percezione, il Napoli ha ritrovato un giocatore e ne ha assaporato la sua versatilità, ha scoperto una dimensione che gli era sconosciuta e che il suo allenatore, senza formalismi dialettici, ha sintetizzato in un’idea:

Lobo è fantastico, è forte, può diventare un calciatore tipo-Jorginho, uno che sa come prendere la squadra per mano. Quando inverte il senso di corsa e va oltre la linea di quelli che lo attaccano, ti spacca in due

Luciano Spalletti

Se tutto ciò è vero, ed effettivamente lo è, i meriti della tramutazione di Lobotka vanno sicuramente all’allenatore, anche sotto il punto di vista psicologico, ed a lui stesso. Ma non solo. Spalletti è riuscito a valorizzare il calciatore soltanto una volta dopo che questo si sia sottoposto ad una dieta. Il suo stato di forma pre-Europeo, probabilmente, non gli avrebbe comunque consentito un “ritorno alle origini“. Le stesse che avevano fatto apprezzare il calciatore da Luciano già ai tempi dell’Inter. Soprattutto nell’attuale calcio che molti definiscono “moderno” non c’è più spazio per calciatori che prima di essere fenomeni tecnici non siano atleti esemplari. Basti pensare ai pazzeschi stati di forma dei giocatori delle superpotenze europee, tra cui il Bayern Monaco su tutti.

Il calcio, sotto questo punto di vista, può definirsi realmente cambiato. Ricordiamo, ad esempio, il siparietto tra Roy Keane e Micah Richards. La stella del Manchester United, commentando un’intervista all’astronascente Phil Foden, che aveva affermato di aver ingaggiato un cuoco personale che gli curasse l’alimentazione, raccontò un suo particolare aneddoto: “Io una volta dovevo giocare un match di Coppa contro il Crystal Palace, ma non avevo cibo in casa. Mancavano tre ore all’inizio, allora sono sceso in strada e mi sono mangiato un kebab“.

Potremmo allora affermare, senza incorrere in inutili sensazionalismi, che la stagione di Lobotka parte proprio dal fondamentale ruolo dei nutrizionisti. All’interno di una società non sono rilevanti soltanto allenatore e calciatore per arrivare alla vittoria, soprattutto oggi che è necessario essere fisicamente pronti per affrontare il calcio. Oggi, rilevanti meriti, vanno agli stessi che hanno iniziato a rendere Lobotka il calciatore che oggi divora il centrocampo. Difatti, dalla scorsa stagione, l’ex Celta Vigo, grazie al programma di Vincenzo Monda e Marco Rufolo, nutrizionisti dello staff del dottor Canonico, ha perso ben 6 kg.

© Foto Lobotka di InterNapoli.it

Noi siamo quello che mangiamo

Una frase che rimbomba, o ha rimbombato, nelle case da generazioni. Questa, è stata pronunciata per la prima volta da Ludwig Feuerbach, autorevole esponente della cosiddetta “sinistra hegeliana”. D’altronde ciò che viene introdotto nel nostro organismo non influenza soltanto il corpo, ma anche i processi energetici, psicologici e spirituali. Migliorare l’alimentazione può quindi migliorare la vita. Non slegandoci completamente dall’ambiente del calcio, c’è stato un singolare episodio che manifesta proprio come una cattiva disciplina da parte di nutrizionisti e preparatori possa incidere sui risultati di una squadra più di quanto si possa pensare. A stabilire se “stiamo aprendo il cascione” come si dice a Napoli, dipende un pò dalla concezione del tempo insita in ognuno di noi.

Prendendo un areo e facendo un viaggio nel tempo, arriviamo nella Copa Libertadores del 1986.

Il Bangu Atlético Clube, squadra brasiliana qualificatasi sorprendentemente l’anno prima a seguito di una grande stagione, pesca nel girone il Coritiba, connazionale, e due squadre ecuadoriane: il Barcelona e il Deportivo Quito. Le prime due partite da affrontare per il Bangu sono proprio queste ultime due squadre. Lo staff tecnico prende molto seriamente questa trasferta, visto che sarebbero rimasti lì per una settimana. Guardando ciò che viene portato in Ecuador, più che una trasferta valida per l’accesso alla fase successiva della Copa Libertadores sembra una scampagnata.

Addirittura, per quanto riguarda gli alimenti da portare, si effettuò una votazione tra i calciatori per capire quale fosse il loro piatto preferito, per portarlo proprio in Ecuador senza far sentire malinconia di casa ai calciatori. I risultati delle votazioni annunciavano la feijoada, prelibatezza tipica brasiliana a base di riso, fagioli, carne e frattaglie di maiale. Oltre tutta la spesa fatta per comporre la pietanza, la squadra ingaggiò Teresinha da Cunha Nunes, cuoca specializzata nella preparazione della faijoada.

Una volta arrivati in Ecuador, passato qualche giorno, ad attendere i calciatori brasiliani c’è il campo. Il forte caldo di Guayaquil e Quito, a circa tre chilometri dal livello del mare, è opprimente. I giocatori, ben nutriti, scendono in campo. Gli effetti negativi non tardano ad arrivare, i calciatori della squadra brasiliana non riescono ad eseguire due passaggi di fila; il cibo, già difficile da digerire, si rivelò troppo pesante.

Mentre in campo si sbadigliava ed in panchina le riserve erano troppo occupate a dormire che pensare al campo, l’allenatore blatera parole senza senso. Risultato? due sconfitte schiaccianti. Il Bangu, terminato il girone, si posiziona all’ultimo posto proprio grazie alle due batoste ricevute. Dal canto loro, non hanno sentito nostalgia di casa.

Storie del genere esulano dal calcio nel quale siamo immersi, per fortuna; ma ciò che va colto da eventi così singolari in quest’analisi è come una cattiva gestione di una componente della società, in questo caso il settore che si occupa della nutrizione o ad ogni modo il campo anche medico, possa compromettere in modo più che incisivo l’andamento della squadra. Allo stesso modo, come nell’esempio di Lobotka, proprio una buona gestione da parte di nutrizionisti e dietologi ha iniziato a dar vita all’ascesa del calciatore, culminata grazie alla sua tecnica ed il suo allenatore.