L’Italia deve tornare indietro per andare avanti

Dopo la mancata qualificazioni ai Mondiali di calcio per la seconda volta consecutiva, l'Italia calcistica ha bisogno di fermarsi, riflettere e tornare alle radici.

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Articolo di Francesco Gorlero29/03/2022

© “ITALIA” – FOTO MOSCA

“Si può toccare il fondo e poi trovare ancora un altro fondo”.
Charles Bukowski, Compagno di sbronze.

E così, dopo una colossale sbronza estiva nel tempio inglese di Wembley, i postumi ci hanno ricordato in quali terribili condizioni versa il nostro sistema calcio. Il dramma sportivo subito contro la Macedonia del Nord, in un playoff al quale non avremmo mai dovuto partecipare, ha esposto l’intera nazione ad un’onta globale. È bene farsene una ragione: l’Italia non parteciperà ad un Mondiale per la seconda volta consecutiva. Un’intera generazione di ragazzi nati a partire dal 2010 non avrà la possibilità di abbracciare, gioire, piangere per la maglia azzurra in quelle sere d’estate che ogni quadriennio hanno scandito la nostra adolescenza.

Vivere un Europeo è senza dubbio entusiasmante, ma un Mondiale è per sempre. Cadono i colori e le fedi campanilistiche, mentre un caldo vessillo azzurro ci innalza per un breve periodo a “veri” Fratelli d’Italia. Prendendo in prestito le parole del bardo dall’Enrico V: “Noi pochi. Noi felici, pochi. Noi manipolo di fratelli: poiché chi oggi verserà il suo sangue con me sarà mio fratello, e per quanto umile la sua condizione, sarà da questo giorno elevata, e tanti gentiluomini ora a letto in patria si sentiranno maledetti per non essersi trovati oggi qui, e menomati nella loro virilità sentendo parlare chi ha combattuto con noi in questo giorno di San Crispino!”.

Ritorno alle radici

Quando si è persi, travolti in un destino da cui si è cercato di fuggire il più a lungo possibile, invano, non resta che fermarsi, fare un respiro profondo, ritrovare la lucidità necessaria e tornare alle radici. Il calcio italiano ha sempre sfornato ottimi giocatori, grandi portieri e difensori (probabilmente i migliori), superlativi centrocampisti e attaccanti e, talvolta, qualche fuoriclasse assoluto. Ciò indica quanto in realtà sia versatile e ricca di potenziale la materia prima del Bel Paese. Certo, non avremo l’estro dei brasiliani o il tocco degli spagnoli, tantomeno la resilienza tedesca o l’atletismo inglese, e sicuramente non abbiamo un serbatoio di talenti dalle ex colonie come la Francia. Tuttavia, proprio perché nella nostra storia quasi tutte le potenze europee nei secoli hanno transitato, occupato, stretto alleanze matrimoniali, liberato la penisola italica, il nostro DNA è assai ricco e variegato. Viene da chiedersi: per quale motivo continuiamo a cercare giovani talenti all’estero anziché puntare sui nostri ragazzi? Come se di base ci fosse una scarsa considerazione sulla qualità del talento italiano.

Allo stato attuale la FIGC ritiene che sia sufficiente rispettare i seguenti parametri affinché le condizioni del calcio italiano possano considerarsi sane e in fase evolutiva: rose delle squadre di Serie A composte 25 calciatori, di cui 4 cresciuti in Italia e 4 cresciuti nel vivaio del club per cui sono tesserati, libero tesseramento degli Under 21; Riforma dei cosiddetti giovani di serie, ovvero, il giovane extracomunitario al primo tesseramento deve essere residente in Italia ed essere entrato nel nostro Paese con i genitori non per ragioni sportive e comunque aver frequentato la scuola per almeno 4 anni (tali calciatori non possono essere utilizzati per la sostituzione di un nuovo calciatore extracomunitario); La sostituzione del calciatore extracomunitario sarà possibile solo nel caso di esistenza del contratto da professionista da almeno 3 anni. Ebbene, forse è il caso di tornare ad un modello precedente, magari rivisto in ottica anni ’20 del 2000, il cui utilizzo portò all’apogeo della Serie A fino alla fine degli anni ’90 del XX secolo. Avrete capito che mi riferisco al sistema dei tre stranieri in rosa come numero massimo precedente la sentenza Bosman.

Il 15 dicembre 1995 la Corte di Giustizia del UE stabilì cheil sistema fino ad allora in piedi costituiva una restrizione alla libera circolazione dei lavoratori e ciò era proibito dall’articolo 39 del Trattato di Roma.

A tutti i calciatori dell’Unione Europea fu permesso di trasferirsi gratuitamente alla fine del loro contratto, nel caso di un trasferimento da un club appartenente a una federazione calcistica dell’Unione Europea a un club appartenente ad un’altra federazione calcistica, sempre dell’Unione Europea. Oltre a questo, venne stabilito il diritto a firmare un precontratto con un altro club, sempre a parametro zero, negli ultimi sei mesi del proprio accordo con il precedente club. L’effetto fu anche quello dell’abolizione del tetto al numero di calciatori comunitari nelle rose, proprio per evitare discriminazioni.

Non è assolutamente un caso che le generazioni di giovani calciatori italiani che hanno beneficiato del sistema pre-Bosman abbiano praticamente dominato nella categoria Under 21 per più di un decennio. Dal 1992 al 2004 gli azzurrini hanno conquistato 5 edizioni degli Europei. Il perché è presto detto. I giovani giocavano, avevano fame, il calcio non era solo un trampolino per la notorietà, ma tutto il loro mondo. Certamente non era sufficiente disputare una stagione buona e qualche gol perché il valore schizzasse alle stelle e i giornalisti incoronassero eredi su eredi dei grandi del passato. Esempio più recente: Sandro Tonali. L’anno scorso un brocco sopravvalutato, quest’anno un giovane Albertini. Il sistema mediatico è in grado di affossare un ragazzo facilmente, ancor più se italiano. E questo è un mea culpa a nome della categoria. Il problema di fondo però resta. L’Italia calcistica non potrà risollevarsi finché non avrà il coraggio di tornare indietro per andare avanti. A mali estremi servono estremi rimedi.

Il Paradosso

Arriviamo dunque al paradosso. Affinché un movimento cresca e faccia maturare i giovani talenti è necessario che questi giochino con continuità non solo in Primavera, ma soprattutto in prima squadra. Se consideriamo la media del numero di calciatori italiani titolari nelle squadre di Serie A osserviamo che si attesta alla modesta cifra di 3,4. Se poi prendiamo come campione d’esame le prime 8 della classifica il numero si riduce addirittura a 2,6. Il motivo? Economico naturalmente. Se già vi era una tendenza ad acquistare giovani dall’estero, vuoi per un motivo o per un altro, oggi quell’abitudine si è cristallizzata grazie alle agevolazioni fiscali derivate dal Decreto Crescita. Ecco dunque il nodo gordiano.

Se una squadra come il Milan, oggi prima in classifica e potenziale serbatoio per la Nazionale, ha ridotto il proprio monte ingaggi da 187 milioni di euro a poco meno di 90 in tre anni e mezzo lo deve sì ad una gestione oculata della società, ma anche all’innesto poderoso di giovani talenti stranieri. Solo Calabria e Tonali tra gli 11 titolari di Pioli. Così come sta facendo il Napoli, in lotta per il tricolore e con solo Di Lorenzo e Insigne nello schieramento tipo. Come si può pretendere di definire sano un movimento che continua ad incentivare acquisti dei club dall’estero ed esigere di ergersi a grande potenza calcistica mondiale in virtù dei trionfi passati? E oltretutto mantenere arrogantemente la barra a dritta?

È arrivato il momento di stringersi a coorte e tornare alle radici. Non con discutibili norme che incrementino il numero di italiani in un club, ma con rigorose, ma amorevoli e quanto mai necessarie, limitazioni al numero di stranieri in rosa. Ci rendiamo perfettamente conto che oggi, probabilmente, la concessione di tre calciatori non italiani apparirebbe alquanto restrittiva. Tuttavia, su una rosa di 25 elementi, riteniamo il 20% (ovvero 5) possa essere un buon punto di partenza affinché il talento italiano torni a mostrare tutta la versatilità che ci ha reso ciò che eravamo, e che potremmo ancora essere. Le generazioni future lo chiedono. Il buon senso impone una riflessione. Ma, citando le ultime, profonde, riflessioni di Achab al proprio primo ufficiale Sturbuck sulla poppa del Pequod, prima di dover affrontare l’ineluttabile: “A chi spetta giudicare, quando il giudice stesso è trascinato davanti alla barra? Ma è un giorno tranquillo, e un cielo dolcissimo”.