Kipling a Giannis, «via» Boniperti: i confini tra vincere e perdere
All’ombra di Napoli campione preme il dibattito sul confine tra successo e insuccesso: un rapporto facile da insegnare, difficile da imparare.

All’ombra di Napoli campione preme il dibattito sul confine tra successo e insuccesso: un rapporto facile da insegnare, difficile da imparare. La storia è lì, oblò neutrale e marziale. «Winning isn’t everything, it’s the only thing»: vincere non è importante, è l’unica cosa che conta. Lo slogan che Giampiero Boniperti raccattò dai pizzini sparsi di Vince Lombardi, guru del football americano, e costui da Henry Russell Red Sanders, coach dell’Ucla, ha fatto il giro delle morali e dei moralisti. Simbolo e confine di una certa filosofia, un po’ guerriera e un po’ estrema, che al risultato massimo affianca memorie dal sottosuolo non proprio caste, non esattamente partecipative.
Finché un giorno all’improvviso non piovve dagli Usa il discorso di Giannis Antetokounmpo, stella dei Milwaukee Bucks, bruscamente eliminati nei playoff della Nba. Gli chiese, un giornalista, se una sconfitta così cocente, così indecente potesse essere equiparata a un fallimento. Giannis, classe 1994, lo fissò seccato: «Mi hai fatto la stessa domanda la scorsa primavera, Eric». E poi: «Per caso tu ricevi una promozione ogni anno nel tuo lavoro? Non credo, quindi consideri il tuo lavoro un fiasco ogni volta che non accade? Direi di no. Ti impegni per ottenere altri risultati, per prenderti cura della tua famiglia, comprare una casa e tante altre cose. Non è mica un disastro, ma un passaggio necessario per provare a vincere».
Finito? Manco per idea: «Michael Jordan è stato 15 anni in Nba, ha vinto sei titoli: forse che gli altri nove anni sono stati una catastrofe? Mi state davvero dicendo questo? Mi fate davvero questa domanda? Dovete capire che nello sport non esiste la logica del fallimento».
Come se, nello sparo di un calcio di rigore, il portiere dei luoghi comuni si fosse buttato a destra e la pallottola del «politically incorrect» si fosse conficcata a sinistra. Siamo nel 2023, in piena post-modernità, con Internet a regolare il flusso e il riflusso del sentimento popolare e populista. Proprio per questo, la memoria mi ha spinto indietro, a Rudyard Kipling e alla sua poesia «If» (Se). Una delle più celebri. E, nel mondo dell’agonismo, «la» più famosa, tanto che il torneo tennistico di Wimbledon l’ha trasformata nel suo mantra, nel suo motto, perché sì, fatti non fummo a viver come bruti. Dunque: «Se riuscirai a confrontarti con Trionfo e Rovina/ e trattare allo stesso modo questi due impostori […] Tua sarà la Terra e tutto ciò che è in essa/ E – quel che più conta – sarai un Uomo, figlio mio!».
Kipling la compose all’incirca nel 1895, in onore di sir Leander Starr Jameson, politico britannico di cui ammirava lo stile e l’equilibrio. Ecco: basta leggere sopra le righe – e non «fra», esercizio futile e inutile – per scorgere la stessa fiamma, l’identica scintilla, il medesimo spirito che legano le struggenti raccomandazioni del padre alla ramanzina che l’Achille greco ha inflitto al taccuino dell’Ettore petulante. C’è il rischio, serio, che qualcuno se ne appropri per difendere, giustificare o nascondere rovesci ben più radicati e radicali, come per esempio la grandine juventina dell’ultimo triennio di Andrea Agnelli o dell’ultimissimo Massimiliano Allegri. Tocca a ciascuno di noi, in barba ai tribunali sanguinari del Web, pesarli sulla bilancia del pivottone ateniese e trarne, di episodio in episodio, le conseguenze. Attenti, magari, a non scivolare sulla buccia di un Simone Inzaghi ieri pirla, oggi genio, domani chissà.
Il buonismo non c’entra un tubo. Resta la grandezza di un «rimbalzo» che alibi non è, assolutamente. E nemmeno demagogia da basso impero. Poche balle: è l’essenza, e non l’assenzio, dello sport.