Pietro Anastasi possedeva nel sorriso, nello scatto, nello sguardo tutte le meraviglie del Sud. Era terra generosa, campi di polvere e speranza, pane in tavola, il simbolo del riscatto degli operai della Fiat Mirafiori, il centravanti dalla rovesciata proletaria, il mio idolo poi diventato amico del cuore, il sole lucente dell’amata Catania e poi la Torino proletaria e borghese, gozzaniana: “Da Palazzo Madama al Valentino / ardono l’Alpi tra le nubi accese…”.
Arrivasti tu, Pietruzzu, nella mia prima giovinezza, a prendere il posto degli eroi salgariani, Sandokan e il Corsaro Nero. Avevo il tuo poster appeso nella mia camera e in curva Filadelfia la mia bandiera sventolava per te, mio beniamino sempre e per sempre. Ci furono quei bagliori del 1968, la stagione del tutto e del niente, delle barricate e delle utopie, dell’immaginazione al potere e del furore, a illuminare il tuo cammino sul prato verde: le meraviglie con il Varese, il tuo gol in acrobazia nella finale bis contro la Jugoslavia agli Europei di Roma, poi il passaggio alla Juventus a beffare l’Inter.

Per me furono preghiere esaudite, l’arrivo in bianconero dell’attaccante che mi evocava gli assi funambolici della mia infanzia brasiliana, quando tifavo per il Palmeiras, che un tempo si chiamava Palestra Italia.
Ritornano le tue parole, mentre passeggiavamo per la bellissima Noto, sotto quel sole ricamato e rinnovato: “Sai, Darwin, della mia vita continui a sapere più cose tu di me”. E recupero Giovanni Arpino, il mio maestro di letteratura: “Avrebbe dovuto conoscerlo Elio Vittorini. Perché Pietruzzu ricorda, in certi momenti, il ragazzo Rosario del mai finito romanzo ‘Le città del mondo’, cui Vittorini lavorava mentre Pietro era nato da poco. Quel Rosario pastore si avvicina col padre e il gregge dall’alto di un monte e vede per la prima volta una città. Subito la ritiene la Città Ideale, forse Gerusalemme. Così cominciò non la vita ma la leggenda popolare di Pietruzzu. Robusto seppur piccolo, veloce e sgambettante, carico di fantasie da cortile che sapeva travasare con ilarità in area di rigore”.

Quanto tempo passato insieme, mio caro Pietro. Ti rivedo al battesimo di mio figlio Santiago nella mia adorata Mazzè (perché, come scriveva Cesare Pavese, “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei, resta ad aspettarti”), a casa dei miei genitori nel quartiere torinese di Santa Rita, nella tua bella villa a Varese, tu ospite delle mie trasmissioni televisive: sempre così preciso, sempre così sorprendente. Tu e la tua adorata Juve. Nel portafoglio portavi la foto di te ragazzino, raccattapalle al Cibali, al fianco di John Charles, il gigante buono di Madama.
Si riempie di saudade il mio cuore. Risento il calore e la forza del tuo abbraccio, ritrovo me stesso adolescente: a riempire il mio diario delle medie con le tue figurine, le tue foto, gli articoli sulle tue prodezze. Giocavo a pallone e facevo il centravanti e a ogni rete esultavo proprio come te. Eri la mia felicità e la mia consolazione. Il mio eroe: di quando il campo, come poetava Maurizio Cucchi, era “la quiete e l’avventura”. Eri il mio orizzonte di pace e serenità, mio caro e infinito Pietro.
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