Sessant’anni fa, la notte tragica del Vajont. Era il 9 ottobre 1963. Siamo al confine tra Friuli-Venezia Giulia e Veneto: una frana si stacca dai pendii del monte Toc e invade la diga, la diga implode, spazza via Erto e Casso, devasta il fondo valle e si mangia Longarone, facendo quasi duemila vittime. «Scrivo da un paese che non esiste più»: è questo il drammatico incipit del reportage di Giampaolo Pansa su «La Stampa» dell’11 ottobre. Erano le 22,35, e come coloro che, lassù-laggiù, erano ancora svegli e appassionati di calcio, stavo guardando, a Bologna, la telecronaca differita di Real Madrid-Glasgow Rangers di Coppa dei Campioni: 6-0, tripletta di Ferenc Puskas, acuti di Evaristo, Francisco Gento, Felix Ruiz.
La nostalgia del «dov’ero?» agita schegge sparse della memoria per recuperare e incollare la lontananza all’enormità dei fatti. Il 1° maggio del 1994, Ayrton Senna si schiantava alla curva del Tamburello, snodo diabolico e cruciale del circuito di Imola: sarebbe deceduto poche ore dopo all’ospedale Maggiore di Bologna. Era domenica ed ero davanti alla tv, in salotto. Confuso, spiazzato, ma anche impacciato: mi toccava Milan-Reggiana, a San Siro. Ultima giornata di campionato, scudetto in ghiaccio da settimane. Lo squadrone di Fabio Capello giocò per onor di firma. E così segnò Massimiliano Esposito, e così vinse la Reggiana di Pippo Marchioro. Il risultato spedì in B il Piacenza di Luigi Cagni. Scoppiò il finimondo.
Quando saltò in aria la stazione di Bologna, mi trovavo a Mosca, per l’Olimpiade. Due agosto 1980, mancava un giorno alla chiusura. La notizia filtrò dalla redazione dell’Ansa. I cellulari non esistevano, la teleselezione aveva procedure rigide. Italo Cucci mi soffiò un sistema per snellire la prassi. Digitando un certo numero di numeri, non meno di otto-nove, si andava «droit au but». Chiamai casa. Mi rispose la mamma: che stessi tranquillo.
E l’11 settembre 2001? Bivaccavo a Roma, per Roma-Real Madrid di Champions League. Primo pomeriggio, siesta in hotel (tipo giocatore in ritiro). Squilla il telefonino. E’ Nino Sormani, da Milano. Lavoravamo insieme a «La Stampa». Indimenticato, insostituibile Ninetto. Lui: «Dove sei?». Io:«In albergo». «Prendi la Cnn?». «Sì». «Guardala». «Ciao». «Ciao». Accesi il televisore, guardai. Le Torri gemelle stuprate dagli aerei, le fiamme, il terrore, l’apocalisse. Si giocò comunque, la sera. Vinse il Real (2-1). L’Uefa, bontà sua, rinviò il pacchetto dei giorni successivi.
Il sacro e il profano. Come la tarda mattinata del 16 marzo 1978. La Juventus aveva eliminato l’Ajax ai rigori nei quarti di Coppa dei Campioni. Si era tutti al Combi, per parlarne con i protagonisti. Tranciante, il «tuono» invase i taccuini: in via Fani, a Roma, le Brigate Rosse avevano rapito Aldo Moro e ucciso i cinque uomini della scorta. Improvvisamente, i penalty parati da Dino Zoff a Ruud Geels e Pim Van Dord diventarono piccoli piccoli.
Ero a Foggia, il 23 maggio 1992, quando la mafia, a Capaci, ammazzò Giovanni Falcone, la moglie Francesca e tre agenti. Era un sabato, vigilia di Foggia-Milan, Zemanlandia contro lo stile asciutto e mascellare di Capello. Rimbalzavo tra gli speciali dei tg e la routine dell’inviato. Il piombo non c’era più: nelle tipografie, almeno. E la partita? Due a uno per il Foggia all’intervallo, otto a due per il Milan alla fine. Eppure era l’ultimo atto, eppure il Diavolo era già campione, eppure i club si amavano.
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