Cambiare, non cambiare? Diciamolo o scriviamolo prima, please

Patti chiari: se cambi e vinci, al balcone. Se cambi e perdi, al muro. Tertium non datur, direbbe Claudio Lotito.

Articolo di Roberto Beccantini12/09/2022

© “CALCIO” – FOTO MOSCA

«Non sempre cambiare equivale a migliorare, ma per migliorare bisogna cambiare». E’ una della frasi che Arrigo Sacchi cita più spesso e più volentieri. L’ha rubata a Winston Churchill, il primo Primo ministro della regina Elisabetta, colui al quale era stato attribuito un motto non meno famoso: «Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio».
Frasi fatte: certo. Filastrocche. Slogan. Una volta, bisognava studiare. Nel secolo dei fumi, basta cliccare Wikipedia, l’enciclopedia a portata di natica. Si diventa colti restando pigri. Lo chiamano progresso. Boh. Ma torniamo a noi, al messaggio che i cambi, e i cambiamenti, riassumono e trasmettono. L’aggancio più comodo e immediato ci arriva dalle rotazioni: in gergo, «turnover». Lo impongono, si dice, i calendari folli, le rose che la moltiplicazione degli impegni ha reso pletoriche, abnormi. Di fronte a questo argomento di confine l’italiano medio si nasconde tra i cespugli della convenienza e della connivenza, pronto a estrarre, come se fossero pugnali, il «servo encomio» o il «codardo oltraggio». Altro che «vergine di».

Patti chiari: se cambi e vinci, al balcone. Se cambi e perdi, al muro. Tertium non datur, direbbe Claudio Lotito. Passano gli anni, le vedove di piazza Di Maio affiancano le macerie della Sinistra che fu, la Cina ha preso l’Inter e Silvio Berlusconi il Monza, ma il risultato, ecco, rimane il massimo (e unico) fattore che regola i nostri umori, veste i nostri aggettivi, scolpisce i nostri giudizi. Veniamo sempre dopo il «tiggì» di Renzo Arbore. La sentenza è tutto. Nel Novecento le squadre tenevano allenamenti pubblici, non esistevano filtri che non fossero la conoscenza, la presenza e la competenza. C’erano ballottaggi che, pur occultati, i frequentatori più assidui azzeccavano in scioltezza. Oggi non più. Oggi bisogna fidarsi dei dispacci e delle talpe, ammesso di essere così bravi e mignotteschi da allevarle senza pagare pedaggi troppo esosi. Tariffario minimo di una dritta, un voto più in pagella. Di conseguenza, i leoni da tastiera non devono pretendere oracoli: si accontentino dei giornalisti.

Le posizioni vanno prese alla vigilia, non davanti alla centesima moviola. Fuor di metafora: meglio fare turnover, meglio non farlo. Metterci la firma, la faccia. Non aspettare che il fiume porti il cadavere del tabellino, ma buttarsi nella corrente delle verifiche e schierarsi. Prima. A chiavi in mano non c’è gusto. Troverei più corretto ed equo raccontare al lettore quale assetto, il cronista deputato alla liturgia della gara, consiglia o immagina. Per quel poco che ha visto o intravisto. E quindi, sulla trama e i suoi sbocchi, pesare la propria coscienza, non solo la altrui scienza.
Ci sono poi piccoli «trucchi» che aiutano a scremare gli allenatori. Prendete la famigerata difesa a tre, frusta di scroscianti dibattiti. Al tecnico che mi fornisce titoli dedicherò sempre, finché decenza non ci separi, il 3-5-2. A quello con cui, viceversa, ho «buchi» in sospeso, infliggerò il 5-3-2. Ma l’indice più emblematico e visceralmente domestico riguarda le staffette in corsa: intuizioni formidabili, se si tratta di un fornitore di soffiate; sbagliata la formazione iniziale, se non lo è. Come si dice proprio dalle parti di Napoli, «Ccà nisciun’ è fess».

Sono le leggi non scritte, ma molto lette, della sindrome del cecchino sui tetti. Un classico, per un popolo che non ha mai finito una «partita» con la formazione di alleati con la quale l’aveva cominciata.

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