© “MAROCCO” – FOTO MOSCA
Viaggio al centro di una mania. Riguarda il rito quasi «voodo» del rigorista inserito agli sgoccioli dei tempi supplementari, come il biglietto della lotteria comprato «last-minute». In passato non era così. Molto si deve alla pandemia e alla liberalizzazione dei cambi: da tre a cinque e, in casi eccezionali, addirittura sei. Domanda: il «giochino» funziona? La risposta di Emanuele Noè di Pavia, studioso dell’argomento, è perentoria: no. Prendendo in esame le partite secche dei Mondiali e degli Europei, attraverso le sostituzioni effettuate «esclusivamente» negli ultimi 5 minuti, emerge, chiaro, il fallimento dello stratagemma. Dall’archivio crepitano questi dati.
Mondiale 1986: Germania Ovest-Messico, Pierre Littbarski entra al 115’ (caso limite, dunque) e realizza.
Europeo 1996: Germania-Inghilterra, Thomas Strunz dal 118’, rete.
Mondiale 2006: Portogallo-Inghilterra, tocca a Jamie Carragher dal 119’; sbaglia.
Europeo 2016: Italia-Germania, Antonio Conte sguinzaglia Simone Zaza al 120’, niente da fare.
Europeo 2021: Spagna-Svizzera, entra Rodri al 119’ e fa cilecca.
Europeo 2021: Italia-Inghilterra, largo a Jadon Sancho e Bukayo Saka dal 120’, Gigio Donnarumma li ipnotizza entrambi.
Mondiale 2022: Marocco-Spagna, in nome della par condicio steccano Badr Benoun, inserito al 118’ (parato), e Pablo Sarabia sdoganato al 120’ (palo).
Per carità, come canta Francesco De Gregori, ne «La leva calcistica della classe 1968», rivolgendosi a Nino, non bisogna aver paura «di sbagliare un calcio di rigore [perché] non è mica da questi particolari che si giudica un giocatore, un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia». Tutto vero. C’è un però, e coinvolge il rigore tout court, un gesto tecnico che, nella storia, ha accentuato il peso e moltiplicato gli effetti. Sino al 1990, anno del Mondiale italiano, comandavano i difensori. Da allora, la Fifa ha consegnato il potere agli attaccanti. E i penalty sono «esplosi», anche (e soprattutto) grazie al mani-comio della stagione 2019-2020.
Scritto che gli «spareggi» dal dischetto portano con sé pressioni e tensioni di ben altra caratura, il rilievo di Emanuele non va spacciato per una banale coincidenza. Se il rigore è più scienza che riffa, e siamo tutti d’accordo, proprio per questo cumulo di stress colui che viene designato/condannato all’anatomia di un attimo – dentro o fuori – bolle e frigge, immagino, più di un collega che, titolare o supplente, non ignora cosa lo aspetta, ma sa cosa ha fatto, cosa ha dato. Non si tratta di un alibi o di uno scarico di responsabilità: si tratta, più terra terra, di una sensazione opposta allo stato d’animo del cecchino reclutato unicamente per una missione di undici metri. «Quella».
Ricapitolando: se non ci troviamo di fronte a una mano di poker, poco ci manca. La psicologia, a livelli e su equilibri così fragili, così morbosi, vale più della perizia, della maestria. C’è poi il rovescio della medaglia. L’ingresso, non già del tira-rigori, ma del para-rigori. Del portiere, cioè, che il «para-guru», un po’ per fiuto e un po’ per scaramanzia, azzarda allo scopo di provocare il destino. Successe nei quarti del Mondiale 2014, al culmine dello 0-0 tra Olanda e Costa Rica, allorché Louis Van Gaal richiamò Jasper Cillessen e offrì il guanto di sfida a Tim Krul. Eravamo al 121’, tra gli avanzi di una noia che si tagliava con il coltello, come certe nebbie padane. Krul ne rintuzzò due e Van Gaal diventò un mezzo genio. «Mezzo», perché in semifinale non ripeté la mossa e l’Argentina ne punì l’improvviso eccesso di normalità. Esattamente come nel deserto di Doha.
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