Il 12 ottobre non è stato soltanto il giorno del 529° anniversario della scoperta dell’America, ma anche quello in cui il presidente del Coni, Giovanni Malagò, presente la sottosegretaria con delega allo Sport, Valentina Vezzali, ha consegnato a Milano i Collari d’oro, massima onorificenza dello sport italiano.
Molto spazio hanno avuto i ciclisti e fra questi Vittorio Adorni, ancora in gran forma, anche ora che è prossimo a compiere 84 anni. Nato a San Lazzaro Parmense il 14 novembre 1937 (stesso giorno di Vincenzo Nibali e Bernard Hinault) non ha mai rinnegato l’amore per la sua terra e per la città di Parma, ma resiste nel tempo un forte legame con Napoli. Da Napoli era partito il Giro d’Italia del 1963, con l’arrivo a Potenza dopo 182 chilometri, che aveva visto il successo di Adorni, il primo nella corsa rosa (e prima maglia rosa). Un’edizione, che il «professore» avrebbe chiuso al secondo posto, alle spalle di Franco Balmamion.
Ma a Napoli è legato un altro ricordo di Adorni. Cinque anni dopo, nel 1968, la stagione del titolo mondiale conquistato a Imola, Vittorio correva per la Faema, come luogotenente di Eddy Merckx, 23 anni ancora da compiere, all’esordio al Giro, con il quale divideva anche la camera. Al secondo giorno, dopo il prologo di apertura, il belga aveva conquistato la maglia rosa, vincendo la frazione da Campione d’Italia a Novara, ma Adorni, forte della sua esperienza (primo nell’edizione del 1965), era stato chiaro: «Se vuoi vincere la corsa, devi perdere al più presto la maglia». Merckx non era tanto d’accordo, tant’è che aveva steso il simbolo del primato su una sedia in camera e lo osservava come si fa di fronte a un’opera d’arte. Ma alla fine si era convinto: «Sarai di nuovo in rosa il 1° giugno, dopo la tappa delle Tre Cime di Lavaredo».
Il leader della generale era diventati Michele Dancelli, fino al giorno del tappone. Ancora Adorni: «Il secondo problema era quello di convincere Eddy a non attaccare troppo presto, ma solo dopo aver ricevuto un mio segnale. Merckx scalpitava: sul Passo di Sant’Osvaldo non seppe più resistere e andò via. Andai da Marino Vigna, il nostro direttore sportivo, e lo invitai a fermare Merckx. Vigna gli ordinò di rallentare. Invano. Glielo ripeté finché fu trovata la soluzione: Eddy fece finta di aver forato. Così si portò sul bordo della strada e cominciò ad armeggiare con la ruota fino al nostro arrivo, qui rientrò nel gruppo, mi si avvicinò, cercò il mio sguardo e se avesse potuto fulminarmi, lo avrebbe fatto. Il momento arrivò dopo Auronzo verso Cortina: Vandenbossche attaccò, dietro di lui Merckx, Gimondi, Zilioli e io, e il gruppo si frazionò. Ogni 500 metri Eddy si girava e mi guardava, ma io scuotevo la testa. Quando vidi che erano tutti cotti, finalmente feci cenno a Eddy di scattare. Gimondi fece uno sforzo terribile per riportarsi sotto. Eddy rifiatò, poi mi guardò, gli feci un altro cenno e lui rifilò un secondo colpo. Gimondi cedette. Piano piano tornai sotto all’inizio del Passo Tre Croci. Prima di Misurina, gli dissi: adesso vai. E lui andò. Tappa, maglia e Giro. In camera, mentre facevo il bagno, mi chiese come avessi fatto a capire il momento giusto. Lo capirai, gli dissi, quando avrai la mia età. La gente non me lo perdonò: alla fine di quel Giro, a Napoli, fui fischiato per aver aiutato uno straniero a vincere, mentre salivo sul podio da secondo classificato. Mi rifeci qualche mese più tardi: campione del mondo a Imola, battendo e di tanto anche Merckx».
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