Non aveva la faccia da birbante di Gonzalo Martinez, il musone di Duvan Zapata, nè la faccia da killer di Pablo Armero ma nemmeno la risata beffarda di David Ospina o la verve frizzantina di Camilo Zuniga. Freddy Rincon, colombiano capitato dalle nostre parti, era un sudamericano atipico, quasi anarchico nel suo approccio con il pallone. Quando arrivò in ritiro, nell’estate del 1994, si sentiva un pesce fuor d’acqua e spesso si isolava in un angolino.
Fortunatamente gli italiani amano il contatto umano e per questo riuscì ad inserirsi subito nell’ambiente. Prima Pino Taglialatela e Fabio Cannavaro, poi via via Buso, Pecchia, Cruz e Tarantino lo fecero sentire come a casa, spiegandogli dove era capitato. E Freddy iniziò a capire cosa significava giocare lontano dal Sudamerica. Il Napoli lo aveva prelevato dal Parma, via Palmeiras, quando la società emiliana era diventata un aiutino per le asfittiche casse sociali della società, nel frattempo guidata da Ellenio Gallo.

All’esordio a Napoli, contro la Reggiana, non fece bene. Guerini lo sostituì al ’70 con Buso e quando Rincon vide esplodere il San Paolo al ’90, per la rete di Benny Carbone, comprese definitivamente dove era capitato. Il San Paolo pieno come un uovo contro una ‘provinciale’ ed un popolo felice come una Pasqua. Si sa, da noi, non si vedeva un attaccante dalla pelle nera dai tempi di Canè. Estate 1962. E come con Faustinho Jarbas, fu simpatia a prima vista. I napoletani gli perdonavano anche qualche errore di troppo sotto porta perché Freddy era simpatico. Ispirava simpatia.
Poi, l’incomprensibile cessione al Real Madrid, perché il Napoli puntò su Di Napoli ed Imbriani, lo allontanò dalla nostra città. Con la sua nazionale, con Asprilla e Valderrama, faceva sfracelli, inspiegabile il suo rendimento a Napoli. Un peregrinare tra squadre brasiliane ( ancora Palmeiras, poi Corinthians, Santos e Cruzeiro, tutti top club ) fino a quando non intraprese la carriera di allenatore, sempre in Brasile.

Nel frattempo nella parabola discendente di Rincon fece capolino anche Jean Jaques Rousseau con la sua teoria del bambino che nasce buono e poi la società che lo circonda lo corrompe. Si parlò di riciclaggio di danaro sporco, una brutta storia di narcotraffico in patria. Fu coinvolto in affari loschi e non sappiamo che fondo di verità ci sia in tutto questo. Freddy Rincon, però, era un buono e fece gol…buoni con gli azzurri nonostante non fosse un fulmine di guerra ed aveva un po’ di idiosincrasia agli allenamenti. Sette reti in 28 partite, non male col suo piedone numero 45. Decise due partite per 1 a 0, quella col Genoa e con la Cremonese, poi il gol alla Reggiana e le doppiette al Padova e alla Lazio.

Il suo ruolo era un po’ quello del jolly d’attacco, visto che spaziava tra fare il trequartista o la seconda punta, ma all’occorrenza sapeva cavarsela anche in mezzo al campo. Si ricordano le tante giocate di alto livello ma anche partite in cui fu indolente. L’anno dopo arrivò Beto, un altro cioccolatino colorato. Anche lui poteva diventare un idolo della torcida partenopea ma restò talento inespresso e fu presto ‘sbolognato’.
Fino all’incidente di pochi giorni fa dove, in seguito alla lesione cerebrale traumatica, ha resistito in terapia intensiva solo due giorni. Ciao Freddy, tu, come Fred Astaire, sapevi ballare sulla palla e ogni tanto la sapevi anche mettere dentro.
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