© “NAPOLI” – FOTO MOSCA
Il pericolo, per Napoli e il Napoli, è sentirsi custodi di una bellezza «troppo» stendhaliana. La sconfitta di San Siro, con l’Inter, sembrava l’indizio che l’altra Italia cercava sulla scena del «crimine», come i detective americani di «Delitti a circuito chiuso». Poi il 2-0 semi-automatico di Marassi con la Sampdoria e la manita alla Juventus. Specialmente questa. Capita di rado, ma capita, che il Napoli straripi fra le gonne di Madama: 5-3 a Torino, con un Careca da pallone d’oro, e 5-1 in Supercoppa ai tempi di Diego; il 5-1 di venerdì sera. Sempre notti di fuoco. Perché sì, la grandezza domestica della Juventus emerge proprio dalle sue cadute più atroci. Chi la sculaccia, o surclassa, non dorme per l’adrenalina accumulata, canta e balla, i poteri forti si dissolvono negli sfottò e nelle corna, gli arbitri vengono raccontati non più come indiziati ma come testimoni.
La Juventus «serve» dal momento che, senza, le curve e i loggioni si annoierebbero. Per carità, Inter e Milan, Lazio e Roma, la Fiorentina, l’Atalanta, il Torino che vive del Grande Torino, ognuna ha scritto la storia del nostro calcio, ma non come la Juventus, per i successi e per quello che attorno a lei, negli sfarzi e nelle miserie, succede. O succederà. Ricordo l’ultima del campionato scorso, al Franchi: Fiorentina-Juventus 2-0. Invece di prendersela con i suoi cocchi, rei di aver «nascosto» il colpo di grazia fino al 92’ (e su rigore, per giunta), la Fiesole era tutta un carnevale, tutta un baccanale. Eppure di fronte c’era una squadra che non c’era, quarta, sazia e straziante. Ma era la Juventus. Il simbolo del Male, mai del banale. Che detestiamo in pubblico per poi invidiare nell’ombra.
La notte in cui la Roma la batté per 4-0 e Francesco Totti mimò a Igor Tudor il celeberrimo «quattro, zitti e a casa», a Fabio Capello, il condottiero, vennero dei terribili presentimenti. Conosceva le tentazioni dell’urbe, avrebbe pagato di tasca sua pur di deportare la rosa lontano dall’isteria popolare. Non poteva. Dovette arrendersi a una Trigoria assediata e infoiata. Era la stagione 2003-2004, e la domenica seguente il calendario, generoso, offriva la trasferta ad Ancona. Una formalità, a rigor di classifica, visto che i marchigiani, ultimi e virtualmente retrocessi, non avrebbero potuto opporre che gli avanzi dell’orgoglio. Finì 0-0, in un tripudio di vaffa. Lo scudetto sarebbe poi andato al Milan di Carlo Ancelotti, non certo o non solo per quel rocambolesco pari da piccoli Gatsby, ma rimane la lezione che persino le Juventus più balorde e più imbarazzanti riescono a trasmettere. Sali sulla sua bilancia, ti pesi, ti senti Nembo Kid, fai la ola: e scoppi.
Non credo che sia il caso del Napoli, di «questo» Napoli. Tranne l’Inter, non c’è Big che non abbia domato. E nel ritorno, Juventus a parte, le ospiterà al Maradona. I silenzi di Aurelio De Laurentiis sono stati indicativi e, spesso, orientativi. Voce dal fondo: comodo, quando si vola; facile, in una città che non ha altre squadre con le quali dividere amori e rancori. Giusto. Ma la passionalità del napoletano è unica, legge sempre sotto le righe, e di rado sopra, il secondo giallo mancato a Miralem Pjanic in Inter-Juventus 2-3 del 2018 resta una ferita, più che un’offesa. Anche se vincere a Firenze sarebbe stato un prezioso cerotto.
Oggi è la bellezza a suggerire la rotta. Non è un luogo comune, e nemmeno uno slogan stantio. La bellezza, sì, filmata da Paolo Sorrentino e rielaborata da Luciano Spalletti. Lunga è ancora la strada, e all’erta bisogna stare, ma in questi avventurati scorci il Napoli sembra davvero l’Italia più vicina all’Europa. Per come gioca. Per come ha divertito, addirittura, il «New York Times». Cantava, Dean Martin: «That’s amore».
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