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Da Maradona a Federer: quando il genio ci fa tutti «esperti»

Da Maradona a Federer: quando il genio ci fa tutti «esperti»

La grandezza, nello sport, si misura anche con il metro dell’incompetenza. Non è un ossimoro. Non è un paradosso. E’ un omaggio.

Si può essere così enormi, perché così superiori alle normali regole di «leccaggio» e alle sordide gabbie che isolano le discipline e i mestieri, da spingere persino il più acerbo o inesperto dei testimoni a fingersi dotto.

Come si fa a non salire sul carro di Roger Federer adesso che ne è sceso e ha annunciato il ritiro?
Gli otto titoli di Wimbledon ne hanno decorato la classe infinita e la raffinata eleganza.

L’8 agosto ha compiuto 41 anni. Tutti vorremmo essere come lui, tutti vorremmo che la squadra del nostro cuore ne emulasse lo stile. Di fronte alla sua immensità, né fenomeno né fuoriclasse costituiscono spaccio di «droga» lessicale.

E’ proprio un fenomeno, è proprio un fuoriclasse. C’è il tennis, Roger Federer, e ci sono straordinari giocatori di tennis, da Rafa Nadal a Novak Djokovic ad Andy Murray: un confine sottile, ma robusto. Una cortina di ferro.

Ripenso ai «Momenti Federer» coniati da David Foster Wallace, recupero dalla memoria le «colonne sonore» di Gianni Clerici e Rino Tommasi, indimenticabili anch’esse.

Quei passi di danza che si concede tra un rovescio e un dritto sembrano usciti dal repertorio di Roberto Bolle.

Perché l’arte, ai massimi livelli, mescola i geni, nasconde i passaporti, rende inutili i vocabolari. Federer bolle.

E’ difficile, molto difficile, essere sé stessi e di tutti senza scivolare sulla buccia del buonismo o, peggio ancora, dell’esibizionismo. Per Giorgio Cimbrico, penna erudita e graffiante, Federer è stato il più grande svizzero dopo Guglielmo Tell. Il ritiro incarna, nell’agonista, l’attimo più «drammatico»: perché chiude una porta, che difendeva un regno, e ne apre un’altra, che attacca un’ombra.

C’è chi ha vinto la carriera e chi ha perso il dopo. E viceversa. Roger è un nome che profuma di cieli, di ali: nel gergo aeronautico significa aver capito il messaggio.

E’ una conferma. La scelta della parola deriva dal dettaglio che, nell’alfabeto militare – agli albori dell’uso della radio – R si definiva con Roger. E R è la prima lettera di «received» in inglese, ossia «ricevuto». Che oggi R sia invece illustrata dal lemma «Romeo», non cambia la sostanza.

Prendete Diego Armando Maradona. Possono cantarlo tutti, anche i più stonati in materia calcistica. Per quello che ha fatto, in campo e fuori, per quello che non ha fatto fare (agli avversari).

Lo stesso vale per Michael Jordan nel basket e per Muhammad Ali nel pugilato. Troppo invasivi e troppo eterni perché la casalinga di Voghera non ne rubasse almeno un frammento all’ora del bucato.

L’assoluto sfonda i muri delle corporazioni e, per detestabile che sia lo sport praticato, appartiene a tutti. E tutti, quorum ego, si sentono in grado di raccontarlo come se lo avessero scortato fin lì, e non scoperto soltanto lì.

Se mai, rimane cruciale la scelta del momento. Detesto i «ritiri» lunghi, alla Francesco Totti. Preferisco quelli secchi, alla Giampiero Boniperti. Il 10 giugno del 1961, dopo Juventus-Inter 9-1, diede le scarpe al magazziniere e disse: «Tienile, non mi servono più». Non aveva ancora 33 anni.

Marco Van Basten vi fu costretto dai ferri dei chirurghi che ne avevano indagato, e probabilmente martoriato, le caviglie. Aveva appena 30 anni.

Gli addii di Valentino Rossi e Federica Pellegrini erano nell’aria, certo, ma la pompa del protocollo non ha indotto a sbadigli (per lunghezza del rito) né a moccoli (per eccesso di inchini).

Chiuderà, Federer, dopo la Laver Cup. Le ginocchia gli hanno presentato il conto. Purtroppo, non possiamo pagarglielo noi.

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