©️ “NAPOLI” – FOTO MOSCA
“Perché con il Napoli dell’anno scorso, pur avendo in rosa professionisti maturi, non sono riuscito ad avere la piena partecipazione e motivazione di tutti i collaboratori per far funzionare la squadra come volevo?”, una delle domande che, mi immagino, mister Spalletti abbia posto a Giuntoli e ad Aurelio De Laurentiis quando ha deciso di dare un taglio netto alla generazione dei “fantastici perdenti”?.
Una domanda retorica (per Spalletti) perché la conclusione cui sistematicamente giunge il tecnico di Certaldo si basa sul presupposto che una delle cause era l’eccesso di leadership istituzionale.
Perché una organizzazione può morire per eccesso di comando. Si tratta di un problema legato alla interpretazione del termine “leadership” che molti tifosi travisano anche perché confusi dai fuffa-guru che hanno un forte ascendente su di loro. Se, infatti, nell’interpretazione più elementare e letterale, leadership significa “capacità di comando delle persone”, una organizzazione come una società di calcio che spinga al massimo l’acceleratore della leadership senza accortezza rischia di avere poche persone che comandano senza capacità e molte persone che eseguono con inutilizzate skills da leader.
Le organizzazioni, soprattutto quelle in cui la linea gerarchica è molto appiattita (come lo è il Napoli), hanno invece bisogno di molti bravi “comandanti” che, nello stesso tempo, agiscono, operano, fanno.
In altri termini se leadership è la capacità di comandare, lo sforzo di crearla, svilupparla e mantenerla nel Napoli dei “fantastici perdenti” apparteneva solo e soltanto a una minoranza, spesso identificata come tale solo per effetto di un certificato di residenza (la napoletanità di Insigne) o di nascita (la seniority di Mertens).
Se invece nelle organizzazioni si deve parlare della leadership in senso più lato è perché, nel tempo, la sua interpretazione è andata cambiando.
Se oggi la leadership è manifestazione di energia, di entusiasmo, di grinta decisionale, di calore umano; se è ricorso alla forza dell’esempio, alla propria autorevolezza prescindendo dalla autorità istituzionale, all’ascendente personale; se per leadership intendiamo la capacità di convincere gli altri (non necessariamente sottoposti) a fare cose che non farebbero altrimenti, allora nelle organizzazioni non è necessario essere “capo istituzionale” per manifestare questi aspetti: tutti possono in tal modo esercitare “leadership”.
Viene pertanto a cadere la classica (e nefanda) dicotomia tayloristica, ancora molto presente nel nostro immaginario di tifosi, del “chi comanda e chi esegue”, come anche il principio “capi si nasce (semmai solo per effetto dei fattori sopra citati) e non si diventa”, sostituito dalla ormai diffusa convinzione che la “leadership” non è un diritto successorio e si sviluppa anche in chi non ha la fascia sul braccio.
Nella misura in cui anche Gaetano o Zerbin, operando all’interno di ristretti gruppi di lavoro, devono interagire con altri, devono dare e ottenere collaborazione, devono convincere il compagno ad agire per raggiungere insieme un obiettivo ricevuto, anche per essi vale la necessità di possedere una buona dose di leadership; non quella canonica, letterale ma quella concreta qui esemplificata. Spetta all’allenatore sollecitare l’esercizio di una leadership diffusa e democratica realizzata attraverso una strategia di gestione delle risorse umane trasversale e flessibile.
È una modalità di gestione delle risorse umane che Spalletti, aiutato dalle società, ha più volte manifestato nel corso della sua carriera.
Il tecnico si è reso conto che non c’è più bisogno di una gerarchia istituzionalizzata o per lo meno di una gerarchia autoritaria sostanzialmente preposta a comandare. Il comando deve essere sostituito dallo spirito di collaborazione e dal senso di essere squadra. Ma fino a quando ciò non sarà veramente in atto (e la sua storia lo ha dimostrato), il concetto di efficienza complessiva e di coinvolgimento delle poche risorse umane a disposizione continuerà a rappresentare un dubbio che può essere letale per l’intera organizzazione.
Quel dubbio, anche nel Napoli, è stato fugato. I fantastici perdenti erano un tappo che bloccava il flusso energetico di tanti altri elementi. Applauso alla società e all’allenatore, queste sono lezioni di management da portare in aula.
Leave a Reply