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Dalla strage dell’Heysel ai brividi di Parigi: eppure ricordare dovrebbe aiutarci

Dalla strage dell’Heysel ai brividi di Parigi: eppure ricordare dovrebbe aiutarci

Cade, questo anniversario, in un periodo storico molto delicato, molto doloroso. Dopo una guerra, contro l’atroce e subdola pandemia, che forse abbiamo vinto. E durante un’altra, l’aggressione russa all’Ucraina, che, temo, nessuno vincerà. Nemmeno i vincitori. Sono passati 37 anni. Fu una guerra anche quella. Improvvisa. Inaudita. Bestiale. Incredibile perché a Bruxelles, stadio dell’Heysel, il 29 maggio 1985 erano stati tutti invitati a una festa: la finale di Coppa dei Campioni fra Liverpool e Juventus. E quando vai a una festaal massimo ti annoiMa non muori. Invece la gente non si annoiò. E in 39 creparono.
Sono grato alla signora Iuliana e al signor Rossano di Reggio Emilia per il ricordo che serbano e diffondono. Quel giorno e quella notte c’ero anch’io, inviato della «Gazzetta dello Sport». Faceva caldo: pensavo al servizio, alla partita, alla fortuna di essere lì. Sentivo nell’aria qualcosa di stranonon di tragico. Successe all’improvviso, anche se di improvvisato ci fu ben poco. Settore Z, la carica e i lanci degli hooligans inglesi, la fuga degli indifesi verso il muretto, l’ecatombe per schiacciamento, l’ignavia della polizia e delle autorità belghe, la negligenza dei mandarini dell’Uefa.

In condizioni normali, mi sarei dovuto occupare della Juventus «dopo»: degli spogliatoi, cioè. Saltò tutto. Facemmo un punto volante, ci dividemmo i compiti. Mi vennero affidati il fronte Uefa e la risposta alla domanda più banale ma anche più cruciale: si gioca o non si gioca? I cellulari non esistevano. Ricordo l’arrampicata di molti italiani fino alla tribuna stampa. Elemosinavano un colpo di telefono, volevano tranquillizzare i parenti a casa. Piangevano. Bestemmiavano. Intanto arrivò l’avvocato Agnelli e, informato del macello, ripartì subito. Intanto i cadaveri aumentavano. Intanto pedinavo Rudolph Rothenbuhler, che dell’Uefa era l’addetto stampa. Vi lascio immaginare la bolgia di corpi. Alla fine, decisero: si gioca. E così corsi da Lodovico Maradei, capo squadra della «rosea». «Si gioca», gli dissi. Si giocò. E andò come andò. Francesco Caremani vi ha dedicato un libro che già dal titolo – «Heysel, le verità di una strage annunciata» – spiega molto di quello che era successo, perché era successo e perché, in particolare, chi di dovere avrebbe dovuto e potuto evitare che succedesse. Non erano tutte juventine, le vittime. Il dettaglio ci spinge a perpetuare il cordoglio affinché le generazioni future possano sfruttare i nostri errori, la nostra vigliaccheria.

Gli incidenti, le resse e i ritardi di sabato scorso a Parigi, in occasione della «bella» tra Liverpool e Real Madrid, hanno ribadito quanto l’uomo tenda a trascurare le tracce che la storia gli offre. Anche quelle più sanguinose. Eppure, da un’arena belga a uno stadio francese, i protagonisti sono sempre gli stessi: i tifosi dei «Reds», i tutori dell’ordine, i grandi capi dell’Uefa. Aver «solo» sfiorato il massacro non può e non deve assolverci.
Non dimenticare non cambia ciò che è stato, ma potrebbe migliorare ciò che sarà. Per questo, ho trovato stupendo – passatemi il termine, legato com’è a una ricorrenza così drammatica – che Reggio Emilia abbia intitolato una via a Claudio Zavaroni, il fotografo reggiano che, quel maledettissimo mercoledì, fu molto più sfortunato di me.
L’Heysel rimane una ferita immane che riga la memoria e sfigura molte coscienze che sanno di averla fatta sporca. Recuperarlo dall’oblio significa scacciare la tentazione indecente di metterci una pietra sopra. Trentanove morti e trentasette anni dopo.

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