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Nel business calcio i tifosi servono ancora?

tifo organizzato

© “STADIO-MARADONA” – FOTO MOSCA

L’industria calcio nel nostro paese è tra le prime dieci per valore di fatturato. Se si tiene conto del calcio professionistico, Federazione, Leghe, campionati dilettantistici e giovanili, il dato complessivo è di circa 5 miliardi all’anno. Ma in questo paese spesso si ingigantiscono concetti con un’enfasi che nasconde molto spesso incompetenza.

Vero, il calcio produce tanto fatturato. Ma si tratta di un settore che non realizza profittabilità, redditività.

Nella stagione 2017/2018, l’ultima analizzata da Pwc, il risultato netto complessivo dei 20 club della massima serie segnava una perdita di 98 milioni di euro. Un anno fa “Il Sole 24 Ore” ha studiato i bilanci 2018-2019 dei club della A mostrando come, tolte Atalanta e Napoli, che hanno fatto rispettivamente 24 milioni e 29 milioni di utile, le squadre più forti erano tutte in rosso. La situazione è poi peggiorata, complice anche la pandemia, negli ultimi due campionati.

Tranne poche eccezioni, nel calcio si ragiona in un modo completamente opposto a quanto afferma la teoria manageriale sul comportamento competitivo: le società sportive, come tutte le imprese, dovrebbero competere per avere un ritorno (redditività) superiore alla media dei loro concorrenti.

Ma nel nostro calcio sono ancora pochi gli investitori professionali e i proprietari che vogliono una gestione manageriale e redditizia. Molti proprietari (compresi i fondi di private equity) investano nello sport ancora solo per visibilità e passione!

Lo dimostra l’evidenza empirica: le squadre che vincono hanno più ricavi, ma questi non diventano profitti. Queste aziende non hanno, quindi, un vantaggio competitivo sostenibile. Quindi aumentare i ricavi con Superleghe, campionati a venti squadre, coppe europee dal fascino residuale (Conference League), non è la soluzione.

In un’arena competitiva dove tutti i concorrenti possono imitare tutto (tecniche, tattiche, strumenti, ecc.), gli unici elementi distintivi e non imitabili diventano i calciatori e il…cliente!

Per quanto riguarda i calciatori, abbiamo già avuto modo di ribadire su queste colonne che la qualità degli stessi rappresenta un vantaggio competitivo. Ed il fatto che guadagnino tanto conferma il principio che l’unico elemento di differenziazione possibile nel calcio moderno è il denaro che permette di comprare i calciatori migliori che a loro volta sono l’unico fattore di diversificazione.

Negli ultimi 16 anni si sono giocati 80 campionati nazionali nelle 5 principali leghe europee e per 75 volte ha vinto una squadra che aveva la rosa tra le 3 più costose a inizio campionato (e per più 2/3 di queste volte la squadra che aveva la rosa più costosa in assoluto). Nelle 5 (su 80!) volte in cui non è successo, a fine campionato le squadre più ricche si sono comprate i calciatori del vincitore e hanno vinto l’anno dopo (il caso più eclatante: il Leicester di Ranieri).

Ma l’aspetto ancora più determinante in termini di competizione aziendale riguarda l’attenzione al cliente che non solo è importante: è l’unica cosa che conta. Ed a tal proposito occorre porsi una domanda fondamentale: il cliente è disponibile a pagare se l’azienda-calcio non sta generando valore?

In tal senso l’industria del calcio deve decidere in fretta come vuole riorganizzarsi per essere competitiva perché ci sono altri prodotti sostitutivi che potrebbero offrire qualcosa di meglio ai clienti.

Proviamo, quindi, segmentare i clienti di una azienda-calcio in due macro-categorie: i tifosi-supporter ed i tifosi- spettatori.

I tifosi-supporter, quelli che vanno allo stadio, sono di solito “local” e sono, ovviamente, soddisfatti quando vincono. Ma per vincere, lo abbiamo visto, bisogna avere più soldi degli altri per assicurarsi l’unica fonte di vantaggio competitivo, cioè i calciatori, e la differenza nella quantità di soldi disponibili arriva, oltre che dalle tasche dei proprietari, soprattutto dalla gestione del merchandising e delle sponsorizzazioni, degli abbonamenti e dei ricavi televisivi.

Ma in Italia negli ultimi 20 anni hanno vinto lo scudetto solo 5 squadre. Quindi solo una parte dei tifosi-supporter è stata molto soddisfatta. Una minima parte, tralaltro, che secondo il paradosso di Louis- Schmeling (dai nomi di due grandi pugili degli anni Trenta), descritto nel 1964 (!!!) dal prof. Neale, ad un certo punto non si appassiona neppure più al prodotto proprio per il numero troppo elevato di vittorie.

In altri termini secondo il prof. Neale i ricavi di una società sportiva aumentano proporzionalmente alla percentuale di vittorie della stessa fino al raggiungimento di un determinato punto, oltre il quale si ha un rapido crollo dovuto proprio al numero troppo elevato di vittorie.

Provate a guardare la statistica di transfertmark sugli spettatori della stagione in corso e vi renderete conto che la media di presenza sugli spalti dei tifosi-supporter rispetto al campionato 2017-2018 si è ridotta del 20% (dal 64,8% al 44,8%)!!!!

Ma il paradosso Louis- Schmeling diventa ancora più calzante se si pensa al secondo segmento di tifosi, i tifosi-spettatori.

Si tratti di clienti “global”, tanti ed in crescita, disposti a pagare molto in abbonamenti tv e merchandising e quindi di valenza determinante per la suddivisione dei diritti televisivi.

Un segmento di clientela meno emotivo che vuole assistere allo spettacolo offerto dai singoli calciatori e ad una competizione avvincente ed equilibrata sino all’ultimo: una merce sempre più rara in epoca di consumo della televisione in una unica soluzione senza “spoiler”.

Oggi il tifoso-spettatore si deve accontentare di fasi finali di competizioni a gironi (l’equivalente di un film), come è avvenuto nelle ultime settimane anche a Napoli che, per essersi gustata delle emozionanti partite di Champions League, sembrava essersi trasformata in Liverpool o Madrid. Ma quello stesso tifoso- spettatore sarebbe felice di poter vedere uno spettacolo lungo una stagione (come una serie).

Caro presidente per un giorno ricorda che il cliente dell’azienda-calcio è disponibile a pagare se lo spettacolo genera valore: chi lo accontenterà?

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