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Dei fischi a Donnarumma e dei massimi sistemi

Donnarumma

© ” DONNARUMMA”– FOTO MOSCA

Il dibattito sul politically correct è stato rilanciato dai fischi milanesi e milanisti a Gigio Donnarumma, mercoledì scorso, in occasione di Italia-Spagna. Ma cos’è il politically correct? Se scrivo che «fischiare è un diritto» sfondo una porta aperta; e dunque, a lume di naso, mi muovo all’interno, e al calduccio, del conformismo. A meno che il diritto al bercio non venga pesato e considerato alternativa forte all’altro diritto, anch’esso previsto dalla costituzione, di non fischiare; o di applaudire, addiritura, facoltà esercitata dal popolo della Stadium, a Torino, il pomeriggio della vittoriosa sfida con il Beglio.

Avanti tutta, avanti tutti: nel gioco di parole che accompagna e incide i casi di queste ambiguo genere, sono più conformista se fischio (come la maggioranza delle pance ultras) o se non fischio (come la minoranza delle anime pie)? Non solo, ci sarebbe poi una terza via: infischiarsene. Ma se me ne infischiassi, cadrei nel vuoto, in bilico pericoloso e spericolato fra mal-pensanti e ben-pensanti.

E i non-pensanti, poverini? Oscar Wilde non aveva dubbi: «Perdona sempre i tuoi nemici. Nulla li fa arrabbiare di più». Traduzione: fregatene; così facendo, li disorienterai, li disarmerai. Il massimo, se la massa non lo considerasse il minimo.L’abuso di traduzioni del politically correct ha sinceramente stufato. Un tizio che, da incallito interista, applaude Leonardo Bonucci e Giorgio Chiellini anche quando giocano nella Juventus, se mai lo meritassero, cosa rischia? In quale partito verrebbe iscritto e classificato?

Fra i conformisti del buonismo o fra i cani sciolti che perseguono la bontà scevra del becerume campanilistico? E se il giorno in cui il premio Nobel per la pace va a una giornalista filippina e a un giornalista russo ignoro i vasi di Pandora sui cocci dei quali sarebbero scivolati Roberto Mancini e Gianluca Vialli, rispetto, del politichese, il «correct» di un dettaglio antico e dozzinale o lo «scorrect» di un oblio fazioso e omertoso? Il silenzio, dicono, è sempre d’oro. Quasi sempre. Non qui.

Un giornalista, sosteneva Gino Palumbo, deve rispondere alle domande, non porle. E questa rubrica è zeppa di punti interrogativi. Un’eccezione, non la regola. Se il Pallone d’oro andasse a Jorginho, colonna storica del Napoli sarriano, verrebbe probabilmente onorato e rispettato il technically correct. Così si dice, soprattutto in Italia. Ma se per caso finisse per la settima volta nello zaino di Leo Messi, la giuria di quale «delitto» si macchierebbe: di una scelta che deturpa la logica o la eleva? Sarebbe come premiare Indro Montanelli o Gianni Brera «a prescindere», sacrificando i candidati alla Jorginho, regista-ragioniere che calibra e raffina il gioco di squadra senza strappare la ola al loggione.

Insomma: sul fatto se sia più «giusto» fischiare o non fischiare ci scanneremo sempre. E allora, palla a Bertolt Brecht: «Prima viene lo stomaco, poi viene la morale». Che non è un ordine d’arrivo e neppure un ordine. Semplicemente, è la vita: né corretta né scorretta. 

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