©️ “ITALIA” – FOTO MOSCA
A scrivere di Nazionale si corre il rischio di scivolare sulla cera del populismo, in bilico precario tra nazione e nazionalismo. C’è chi la considera un’idea desueta, retaggio di un secolo, il Novecento, prigioniero di troppi orrori e, dunque, bisognoso di stampelle eroiche. C’è chi, viceversa, vi si aggrappa per difendere valori che sono diventati prezzi, onori spacciati per oneri. E c’è chi, addirittura, ne pesa i risultati sulla bilancia del consenso-dissenso che la piazza nutre nei confronti del presidente federale di turno. Mai dimenticare la definizione dello storico Arnaldo Momigliano. Gli chiesero di sintetizzare in fretta, e in breve, l’Italia. Rispose: «Una manciata di comuni, un grappolo di campanili».
L’ultimo caso è esploso attorno alla Coppa Davis di tennis e al rifiuto di Jannik Sinner di prendere parte alle sfide «bolognesi» con Canada, Cile e Svezia. Una resa suggerita dalla stanchezza, dall’obesità del calendario, dalla paura (forse) di non essere all’altezza. Ipse dixit. E Sinner, che in inglese significa «peccatore», è il nostro numero uno, non un numero e basta. La punta dell’iceberg, non l’iceberg. Non lo avesse mai detto, non lo avesse mai fatto. Apriti cielo. Nicola Pietrangeli, 90 anni l’11 settembre, si è detto indignato e ha auspicato una squalifica «esemplare». Lui, primatista mondiale di presenze in Davis (164: 110 in singolare, 54 in doppio). Adriano Panatta ha celebrato la «garra» di Pecco Bagnaia in MotoGp: dalla terrificante caduta di Barcellona, nel Gran Premio di Catalogna del 3 settembre, alla risurrezione e al terzo posto nel Gran Premio di San Marino del 10 settembre, a Misano. Una bella differenza.
La «Gazzetta», riferendosi al bolzanino, ha precisato che si tratta della quarta rinuncia. I più nostalgici e i più bigotti (ammesso che sia il termine corretto) si rifugiano nelle due gambe che Gigi Riva sacrificò alla patria (quando chiamò, con il Portogallo a Roma e con l’Austria a Vienna). Le coppe moderne nascono nel 1955, mentre la Coppa Rimet risale al 1930, arco temporale che spiega come e quanto le rappresentative nazionali emanassero un fascino superiore alle squadre di club e alle relative, acerbe competizioni.
Oggi è il contrario. Oggi è la Champions l’Everest di ogni calciatore, Wimbledon la missione di ogni tennista. I Mondiali, gli Europei e la Davis resistono, per carità, ma non c’è paragone – o ce n’è poco, francamente – tra i due estremi, le istituzioni che curano la «res publica» e le opposizioni che se ne infischiano e prediligono la «res privata». L’archivio è ricco di «fughe», più o meno scabrose e clamorose, di rientri a casa improvvisi e misteriosi. La «rosea» cita i più freschi, i più caldi: da Federico Chiesa a Gianluca Mancini e Matteo Politano. Colpiti da «strani» acciacchi, strani perché non ne hanno impedito il recupero immediato, e miracoloso, in campionato.
Alzi la mano chi. Da Francesco Totti ad Alessandro Del Piero. Penso agli americani e al loro strambo concetto di patriottismo. Non sempre schierano i migliori, e se li dosano beccano sonore batoste come quelle alla recente Coppa del Mondo, dove il «Team Usa» di basket (dizione yankee e mercantile) si è piazzato quarto. Un disastro. Sanzioni per le star «negazioniste», zero. Naturalmente. E’ un altro pianeta, laggiù.
Appartengo alla minoranza rumorosa che in Nazionale giocherebbe sempre ma non la imporrebbe a nessuno. Se un atleta non ne afferra lo spirito, che peste lo colga. Sospensioni e ammende sono arnesi giurassici. Le crisi di fedeltà hanno contaminato persino Diego Maradona e Leo Messi. Alla fine, però, ha vinto il cuore. Che non batte gratis, ma batte.
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