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Il compleanno di Pasquale Bruno: quando il calcio aveva attributi e non (solo) aggettivi

Il compleanno di Pasquale Bruno: quando il calcio aveva attributi e non (solo) aggettivi

Pasquale Bruno detto «O’ animale» ha compiuto 60 anni ieri, domenica 19 giugno. «Non è stato un violento, ma un esibizionista della violenza», lo definì, a suo tempo, il grande Adalberto Bortolotti. Leccese – senza però nulla di barocco: anzi – lontano dai virtuosismi del barone (Franco Causio) e dai «riporti» del martello (Antonio Conte).

Portava il cinque quando, al vecchio Comunale, sganciò un drop di destro (al pallone, stranamente) e siglò il primo gol del 2-0 che la Juventus di Dino Zoff inflisse al Napoli di Diego Armando Maradona. Era l’andata dei quarti di Coppa Uefa. Al ritorno, furono necessari i supplementari: 3-0 per il Napoli.

Ma non è questo il punto. Pasquale appartiene alla tribù dei «delinquenti», dei rustici, di quelli che, alla Beppe Viola, «se lo ammazzi fai pari», dei picchiatori scortesi che se ne fottono delle etichette. Guai a voi, anime brave (o bravine). Stopper, terzino: marcatore d’antan, a uomo, quando il potere era tutto loro, tutto dei difensori, la televisione un gendarme pudìco, i replay anatomie per maniaci, il Var un sogno o un incubo a secondo del ruolo dei dormienti.

Era un vulcano che adescava i «turisti» per (e)ruttare lava e lapilli, se no sai che noia. «O’ animale» lo coniò e glielo dedicò Roberto Tricella per l’omonimia con Pasquale Barra, killer pentito della camorra. Menava felice, e se lo menavi si caricava, mica ti mandava al diavolo per quello: ti mandava a quel paese, come fece con Marco Van Basten dopo uno sfortunato autogol, se gli ballavi sopra, se lo irridevi, se facevi pesare l’insostenibile leggerezza del talento.

Lecce, Como, Juventus, Toro, Fiorentina, ancora Lecce, poi Scozia (Hearts) e Inghilterra (Wigan). Nei secoli fedele al suo stile (che era stiletto affilatissimo), a quella voglia di machismo che non aveva bisogno di Grandi fratelli o di Isole dei famosi per tracciare confini, o di qua o di là, o con me o contro di me.

Nel Duemila, con gli attaccanti al governo, per Bruno sarebbero stati membri amari. L’hybris, che era la sua benzina, è severamente perseguita e bandita. Fallo da ultimo uomo (alla sua epoca, quasi un lessico da luci rossicce), pedatine che diventano rigorini, la telecamera che invade e indaga il benché minimo atto di kamasutra, lui che in area teneva ufficio e talamo, l’arbitro che può addirittura correggersi. Robe dell’altro mondo e, in particolare, di un altro mondo, per il vampiro che incarnava la setta dei peones refrattari al potere, anche se per il suo emblema massimo, la Juventus, vi giocò e ci vinse pure (una Uefa, una Coppa Italia).

Fra risse, pugni e tentate aggressioni, una sorta di Hannibal the cannibal senza l’agente Clarice Starling a braccarlo. Figlio del suo tempo, e però mai falso, mai ambiguo, mai mignottesco. Non si consegnava allo sceriffo ma, se beccato, non scappava di prigione.

Oggi che tutti sono predestinati, tutti fenomeni, penso agli attaccanti che Pasquale doveva marcare e disarmare. Di Van Basten ho scritto, di Careca lo faccio adesso. E fra i nativi, la ciccia e gli spigoli di Pierluigi Casiraghi. Vi giro l’incipit dell’intervista concessa a Ivan Zazzaroni, e uscita sul «Corriere dello Sport-Stadio» di sabato 18 giugno: «Vlahovic, Chiesa, Dybala, Zaniolo, Lukaku? E questi sarebbero campioni? Non fatemi ridere. E perché non parliamo dei giocatori di oggi? Sogno di vedere Bonucci costretto a marcare in campo aperto Maradona o Van Basten, Careca o Aguilera».

Guai a considerarlo un reperto o un feticcio. Pasquale Bruno è il calcio che fu. Senza silicone, senza vaselina, senza orgasmi a comando; forse più brutto e più pericoloso. Ma infinitamente più vero. Un calcio di attributi, non solo di aggettivi.

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