Il rumore del silenzio
L’emergenza di questi tempi ha stravolto e stravolge ancora le nostre emozioni. Che ritorni il rumore e non cali mai più il silenzio.
© “STADIO-MARADONA” – FOTO MOSCA
Domenica 26 settembre mi accingo ad entrare allo stadio Maradona. È la mia prima partita dal vivo dopo la chiusura al pubblico dovuta alla pandemia. Inevitabile un pizzico di emozione nel tornare a respirare l’odore dell’erba a rivedere i colori, ad ascoltare quel fruscio incessante dei tifosi, i commenti dei vicini, i cori delle curve.
I cori delle curve? Dove sono le curve?
La prima sensazione, dopo un naturale ‘friccico’, è di inevitabile stupore. Non ci sono striscioni, non ci sono bandiere, non ci sono cori. È pur vero che l’età oramai impone di non riuscire a saltellare o a cantare con la veemenza degli anni giovanili, ma – forse proprio per questo – esiste una sorta di delega in bianco a coloro che per età, spirito, devozione sono deputati a sostenere gli undici in campo con odi calcistiche irripetibili e cristallizzate nella nostra memoria.
Mi rivolgo ai miei compagni di avventura chiedendo loro cosa sia successo, quali siano i motivi di questa assenza. Il Covid, il distanziamento, le sanzioni per il mancato rispetto dei posti, l’abitudine al salotto di casa mi viene risposto. L’emergenza di questi tempi ha stravolto e stravolge ancora le nostre emozioni.
Ben inteso che il rispetto delle regole, per chi di questo principio ne ha fatto una professione, non può inchinarsi ad una sorta di richiamo rivoluzionario all’ ‘ad ogni costo’, vieppiù quando queste regole servono a salvaguardare il diritto inviolabile ed invalicabile della sicurezza e della salute altrui. Tale refrain deve sempre essere ricordato e ribadito. Ben inteso anche che, non paiono altrettanto coerenti quelle regole che lasciano trasparire un accomodamento particolareggiato per altri stadi e per altre tifoserie. Un tifoso, uomo di diritto, non può invocare l’illegalità come criterio per eguagliare le condotte diversamente considerate, ben può però invocare l’uniformità che si concretizzi nell’eguaglianza tra i diseguali.
Ben fanno i responsabili preposti alla sicurezza ad intervenire, ben fanno a sollecitare, una volta tanto, il ‘distinguo napoletano’ rispetto al panorama nazionale. Ci ingorgliosisce che proprio da questi lidi, profusori del rispetto e della tolleranza (basterebbe pensare gli ultimi episodi verificatisi a Firenze che hanno visto coinvolto, tra gli altri, il nostro senegalese Koulibaly) possano arrivare segnali inequivoci di rispetto delle regole e del diritto altrui. Ci impone al contempo di non penalizzare, amputare il tifo sano ed il suo sostegno alla propria squadra del cuore. Non so misurare quanto l’assistenza dei gruppi organizzati possa incidere sulle sorti di una partita di calcio, ma certo sorge un ragionevole dubbio valutativo nel trovare quegli stessi gruppi presenti nelle trasferte e, al contempo, nel settore ospiti del medesimo stadio.
Il mio vicino di posto, rigorosamente distanziato, mi segnala che è in atto una protesta dei gruppi della curva A e della curva B a seguito delle sanzioni comminate per il mancato rispetto del numero del posto assegnato con il biglietto. Giusto! Come si potrebbe mettere in discussione una tale elementare regola di civiltà, di convivenza, alla base di qualsivoglia manifestazione che produce spettacolo e non solo. È proprio l’eguaglianza nella differenza che rende però giusto un principio, inattaccabile, una norma, invalicabile un diritto.
Lo stadio, in tutto il mondo pallonaro, non è un teatro, non è un cinema, o almeno non può esserlo nella sua interezza. Non lo è nel mitico Anfield Road, dove il we’ll never walk alone non avrebbe mai trovato cittadinanza se, all’inizio dello spettacolo, calasse il silenzio doveroso per l’esibizione degli artisti mutandati. Non lo è nell’impressionante Signal Iduna Park di Dortmund, dove il c.d. muro giallo non si sarebbe mai stagliato come una sorta di montagna incapace di lasciar distinguere il profilo dell’orizzonte. Non lo è nel mitico Monumentale di Buenos Aires dove galoppano le maglie bianche bardate di rosso del River Plate, accompagnate dall’ondeggiamento costante e simultaneo dei suoi accesi sostenitori, per non parlare della Bombonera dove ha iniziato a calciare ‘l’apostolo dei supremi’ qualcuno che, proprio da queste parti, ha consacrato la sua missione.
Mi fermo a questi solo perché, continuare, potrebbe sembrare una sterile elencazione. Non si può smembrare questa mitologia, non si può porre sullo stesso piano uno spettacolo che nella sua diretta partecipazione chiassosa e colorata pone le proprie origini. Non spetta a chi scrive trovare la soluzione, ma spetta a chi scrive segnalare una palese ingiustizia, connotata da evidente discrasia. Magari proprio le istituzioni locali potrebbero formare un tavolo a cui far accomodare le parti sociali: il sano tifo organizzato, le associazioni ed i club Napoli, rappresentanti del tifo non organizzato ed ovviamente la SSC Napoli.
Sempreché ognuno faccia il suo mestiere scevro da ‘giustizialismi’ o ‘isterismi’ dettati dalla contingenza. Ognuno, si ognuno, anche coloro che oggi legittimamente rivendicano il loro diritto di ritornare a riempire quei settori di cui sono stati i riconosciuti ‘padroni’. Ogni crisi rappresenta un momento di rinnovamento. Questa frase ce la siamo sentiti ripetere migliaia di volte da un anno e mezzo a questa parte. È l’occasione affinché quei giustizialismi ed isterismi non siano giustificati dall’ odio calcistico che spesso ha portato tifoserie, degnamente rivali, a guerreggiare come nei più perigliosi e sanguinosi campi di battaglia.
È giunta l’ora, non si perda questa occasione. Il Napoli ha bisogno dei napoletani ed allo stadio. Che ritorni il rumore e non cali mai più il silenzio.
Articolo scritto per la rubrica “Le vostre voci” di Sport del Sud dall’avvocato Antonello Grassi.