Elogio al calcio povero

Un elogio di Andrea Masciaga al calcio povero, perché "arriva dal basso e, volendo o meno, quasi tutti ci devono passare".

Articolo di Andrea Masciaga31/01/2022

“Che fine ha fatto la semplicità?
Sembriamo tutti messi su un palcoscenico,
e ci sentiamo tutti in dovere di dare spettacolo”
Charles Bukowski

Una vecchia tribuna arrugginita si svuota al tramontare del sole, un fiume di voci si perde dietro ad una porta e la vita smette di essere lunga novanta minuti, almeno per un’altra settimana. Questa è un po’ la domenica di quasi tutti quelli che giocano a calcio. Quasi tutti appunto, perché si sa, lassù, dove il calcio è lavoro, ci sono tutta una serie di altre partite da giocare: i giornalisti, i programmi tv e i ritiri forzati.

Quello però è un altro mondo appunto, più complesso e per forza di cose diverso. Sì perché il mondo del calcio non è uno solo, si divide in due. Da una parte c’è il calcio del Business, il mondo dei professionisti, dei cinquantamila spettatori, del tutto e subito. Dall’altra parte invece ci siamo noi e il nostro calcio.

Un calcio diverso, quel calcio che io, in modo tutt’altro che dispregiativo, definisco povero. Povero perché arriva dal basso e, volendo o meno, quasi tutti ci devono passare.

Qui però, in questa povertà, diversamente da come la si pensa, c’è qualcosa di vero, qualcosa che forse nemmeno l’altro calcio ha.

Non aspettatevi che ve la descriva, perché forse non è del tutto possibile. Posso però a provare a cogliere alcuni tra gli aspetti più belli. Aspetti banali, solitamente trascurati dai più e che, invece, sono le fondamenta di questo calcio che posa le proprie basi solo ed esclusivamente sulla passione.

Mi dispiace che questo calcio sia spesso e volentieri trascurato, perché allora vuol dire che l’attuale società ha portato il suo marcio anche nel piacere di giocare a pallone.

Per fortuna però ci siamo noi a compensare questo assurdo disinteresse.

Bob Marley diceva che quando esprimiamo un desiderio è perché vediamo cadere una stella, e se si vede cadere una stella significa che si sta guardando il cielo, se si sta guardando il cielo, vuol dire che si crede ancora in qualcosa.

Penso che questa frase faccia da metafora perfetta per il nostro calcio, quello povero. Sta a significare che nonostante tutto ci stia morendo intorno, nonostante l’interesse abbia prevalso sulla passione, noi ci siamo, e siamo vivi.

Siamo vivi in ogni domenica, quella che tutti, ispirandoci ad Al Pacino, definiamo “Maledetta domenica”. Che poi un po’ maledetta lo è.

Perché diciamocelo, i calzettoni bucati sul tallone fanno male e i sassi sul cerchio di centrocampo ti aprono le ginocchia. Per non parlare di certi spogliatoi sudici, a cui si aggiunge l’odore del solito compagno che non trattiene l’emozione.

Le tribune, quando ci sono, sono gremite a tempi alterni, il primo tempo è sempre un po’ più spento, mentre il secondo si accende, probabilmente perché il prezzo del biglietto scompare. Maledetta quindi, o meglio, maledettamente bella. Perché se sull’aspetto tecnico ne pagano il fisico e i lunedì al lavoro con il corpo mezzo distrutto, sul piano della passione non c’è nessun fattore che tenga.

Qui torniamo a Bob Marley, perché c’è un aspetto davvero tanto, troppo significativo: per lo stesso modo per cui guardiamo il cielo, giochiamo a calcio. Perché crediamo in esso, ne siamo follemente innamorati.

Perché nel nostro calcio, dimenticato e bistrattato, non c’è nessun valore materiale che ci spinga a continuare, ma lo facciamo.

Perché il nostro amore supera ogni defezione o mancanza.

E anche se il massaggiatore di giorno è un falegname, pazienza. Se le maglie sono sbiadite per i troppi lavaggi, pazienza.

Quei tre giorni a settimana per noi sono tutto. Un tutto che si racchiude in un sogno. Un sogno che comincia con degli sconosciuti che poi diventano “famiglia”.