La Coppa Italia: anche quando entra nel vivo, sembra sempre morta

La Coppa Italia è prosa, non è poesia. Per leggere una favola, o raccontarla, bisogna uscire dai confini, superando le Alpi o La Manica.

Frosinone
Articolo di Roberto Beccantini08/01/2024

© “RASPADORI” – FOTO MOSCA

Anche quando entra nel vivo, coma farà da domani sera con i quarti di finale, la Coppa Italia resta una «morticina» che cammina. Ha il fascino perverso della moglie che il marito, geloso, chiude in casa. Vale, la metafora, per il calendario che sino al penultimo atto privilegia e coccola le Grandi, non sia mai che qualcuna ci lasci le penne. A volte succede: nell’edizione in corso, il Frosinone ha surclassato il Napoli al Maradona per 4-0, e il Bologna rimontato l’Inter a San Siro (da 0-1 a 2-1).Dalla stagione 2021-2022 vi partecipano 44 squadre: le venti di serie A, le venti di serie B, quattro di C. Erano 78: troppe, per i gusti correnti e i calendari galoppanti. Troppe? In Francia, il torneo è aperto persino alle società d’oltremare per un totale di 7.292 (sic!). Si parte dalle qualificazioni regionali per scendere a 64. Le big si affacciano dal nono turno (trentaduesimi di finale).

La Coppa d’Inghilterra («FA Cup») è una medaglia che la bigotta Albione ostenta come una reliquia. Assegnata dal 1872, riassume e incarna la «nonna» di tutte le competizioni. Coinvolge 732 formazioni e s’inerpica dai dilettanti su su fino alla Premier, in lizza dal terzo round. Il sorteggio è sacro, a differenza dei nostri criteri, e sacri sono l’eliminazione diretta e, in caso di pareggio, il replay. A dire il vero, la moltiplicazione degli impegni ha cominciato ad accendere qua e là falò e moti di insofferenza, favorevoli ai supplementari e ai rigori, pur di accorciare l’agonia degli ingorghi. Gli inglesi sono così affezionati alla loro creatura da sacrificarle i week-end di campionato, come – per esempio – l’ultimo del 4-7 gennaio. Ma poiché nessuno è perfetto, nel 1999 il Manchester United, reduce dal triplete, decise di non parteciparvi pur di aderire al Mondiale per club che la Fifa stava lanciando in Brasile. Avete letto bene: il Manchester United. Di Sir Alex Ferguson. Uno smacco colossale: per la reputazione della coppa «regina», per la fedina dei Red Devils.

Da noi ci si arrabatta. È già tanto che dal 2008, con Roma-Inter 2-1, la Lega abbia optato per la finale secca, all’Olimpico, come si conviene a ogni Paese che mastichi un minimo di illuminismo sportivo. Lo scalpo domestico fa albo d’oro, per carità, e in alcuni casi aiuta a salvare i bilanci. Certo, con l’abolizione della Coppa delle Coppe nel 1999, l’Uefa mandò un brutto segnale. L’edizione 1999-2000 servì da laboratorio all’esperimento del doppio arbitro: in occasione di Sampdoria-Bologna, Roberto Rosetti e Gianluca Paparesta si divisero territorio e mansioni. Come se un condominio avesse due amministratori. Non funzionò. E si tornò al giudice «monocratico». Sino all’avvento del Var e al tandem semi-tecnologico, uno in campo e l’altro davanti al video.

La Coppa Italia è prosa, non poesia. Le televisioni – la Rai ieri, Mediaset oggi – vigilano e premono affinché i rischi di «incidenti» sul lavoro siano ridotti al minimo. Da qui, il protocollo blindatissimo che accompagna il corteo. Per leggere una favola, o raccontarla, bisogna uscire dai confini. In Francia può capitare che il Revel, manifesto di una cittadina di 10 mila abitanti a sud-est di Tolosa, abbia affrontato niente meno che il Paris Saint-Qatar di Kylian Mbappé, e pazienza se ne ha presi 9 (a zero). Dilettanti allo sbaraglio. Felicissimi, però. Il 7 maggio 2000, il minuscolo e romantico Calais arrivò a giocarsi addirittura la finale a Parigi, contro il Nantes, perdendola «solo» per 2-1, all’89’, su rigore. Noi siamo fermi al 1962, al Napoli di Bruno Pesaola, l’unica squadra di B (ripeto di B, non di Eccellenza o giù di lì) ad aver alzato il trofeo: 2-1 alla Spal, che allora militava in A. Coraggio.

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